
Theodore Roosevelt a bordo del transatlantico Hamburg diretto a Napoli, foto di gruppo con il capitano e altri ufficiali, fine marzo 1909.
«Roma, 31 marzo [1909], notte. Il sindaco di Roma Ernesto Nathan, a mezzo del telegrafo senza fili, ha inviato a bordo del piroscafo, sul quale viaggia l’ex-Presidente degli Stati Uniti, il seguente marconigramma:
A Teodoro Roosevelt, degno successore di Giorgio Washington e di Abramo Lincoln, campione di verità e di integrità indomita, Roma, anima dell’Italia Unita, salutando il suo avvicinarsi attraverso l’Oceano manda il più amichevole benvenuto.
Anche l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, signor Lloyd Griscom, ha inviato a Roosevelt un marconigramma».
E’ il primo avviso della imminente visita che riesco a identificare, in un angolo un po’ sfuocato di una pagina interna di un giornale quotidiano, poche righe. L’ex-presidente non sarebbe venuto a Roma, avrebbe toccato solo Napoli, una breve sosta e un cambio di nave sulla via di progettate battute di caccia nell’Africa Centrale. Ma per un attimo sembrò che il suo incontro con l’Italia e gli italiani iniziasse, già durante il viaggio di avvicinamento, in un modo ben diverso da quello evocato da Nathan: non amichevole, bensì drammatico o almeno movimentato. Fu per questo motivo che la mattina del 2 aprile l’Hamburg, il piroscafo della compagnia tedesca Hamburg-American che da New York faceva servizio per i porti del Mediterraneo, fu preso d’assalto, appena gettate le ancore di fronte a Gibilterra, da una piccola folla di redattori parigini di giornali francesi, inglesi, e americani.
Uno di essi telefonò poi al quotidiano torinese La Stampa.
Era passato parecchio tempo, dettò il cronista, prendendola alla larga, parlando molto di sé (come spesso accade), dacché aveva veduto Roosevelt, da quando, nell’estate del 1905, aveva avuto il grande onore di essere invitato a colazione nella sua villa di Oyster Bay, e il privilegio, per un intero pomeriggio, di vivere con quel notevolissimo personaggio e ammirare la sua vivacità di spirito, la sua conoscenza estesissima di ogni cosa, la sua formidabile agilità. Aveva preso congedo da lui una bella sera di agosto e sulla soglia della sua villa, laggiù, dall’altro lato dell’Atlantico, Roosevelt con la sua disinvoltura abituale, in abito di flanella, senza solino, senza gilet, con grosse scarpe gialle, con calzoni da caccia, gli gridò (e qui cominciano le incertezze tipografiche, per fretta o scarsa attenzione e noncuranza, nello spelling di parole inglesi, anche di nomi propri, che decido di rispettare per rigore filologico; e almeno non si fossero usate quando non era necessario come in questo caso):
«Good bay’ good bay’»
Ora, in questa primavera di quattro anni dopo, il cronista poteva vedere che il tempo non era passato invano sul capo dello statista americano. Alla sua età, non si attraversano impunemente avvenimenti turbinosi e il periodo agitato di cui era stato il primo spettatore, se non il primo attore. All’aspetto, nonostante il riposo del viaggio, appariva affaticato. Gli occhi erano meno vivaci e, cosa cattiva, assai cattiva per un atleta e uno sportsman come lui, era ingrassato.
Ma era la stessa voce forte e gioconda che colpiva l’orecchio.
«Ho molto piacere di vedervi, molto piacere veramente», disse. «Ho fatto una magnifica traversata, proprio magnifica».
La stretta di mano era vigorosa, quella stessa di quattro anni prima.
«Tutto è andato bene, non è vero?»
«Sì, non è accaduto nulla di spiacevole».
Spiacevole?
Un attentato da parte di un anarchico italiano, avevano annunciato alcuni dispacci telegrafici inviati in America e in Europa dalle isole atlantiche delle Azzorre, dove il piroscafo aveva fatto scalo. O almeno, secondo voci raccolte dal londinese Daily Mail: espressioni di collera usate da un italiano, un emigrante che tornava a casa, evidentemente un idiota, nel vedere l’ex-presidente che passeggiava sul ponte con il capitano della nave.
Il poveretto sarebbe stato rinchiuso per il resto del viaggio.
In Italia, per qualche giorno, c’era stata incertezza e anche preoccupazione. Mancavano notizie fresche e precise sull’accaduto, e ciò, si diceva, tenderebbe a far credere che la cosa abbia minore importanza di quello che era apparso a tutta prima. Ma ci si interrogava anche sui nostri sistemi di comunicazione, sulla difficoltà di mettersi in contatto con l’Hamburg, malgrado a bordo vi fosse l’apparecchio radio telegrafico.
Il problema telegrafico è appassionante, e fu doverosamente sbrogliato.
Sembra che, ridotto al nocciolo, si trattasse di questo: per connettersi con l’Italia, i piroscafi provenienti dall’America dovevano aspettare di avere oltrepassato Gibilterra, per telegrafare poi in Sardegna alla stazione di Capo Sperone, o ad Algeri. Qualche volta si perdeva un giorno, perché a una cert’ora, alle cinque o alle sei del mattino, la stazione sarda aveva l’ardire di essere chiusa e nessuno rispondeva. A Gibilterra vi è una stazione inglese, potente, ma non faceva servizio per i privati, tranne che in caso di pericolo, ed era addetta esclusivamente al servizio militare. Si capisce quindi come si deplorasse, soprattutto in frangenti drammatici, la mancanza di una stazione radiotelegrafica sulla costa spagnola dell’Atlantico, e come, per quello che riguardava l’Italia, si ritenesse necessario a che, almeno, Capo Sperone stesse sveglio tutta la notte, che diamine, al giorno d’oggi, in quest’epoca di velocità comunicativa mai vista. Un radiotelegramma di 10 parole, dal mezzo dell’Atlantico, ormai costava solo 7 lire; ma come ben si sa, il prezzo mite non serve a niente, se poi il servizio non funziona.
Con le informazioni frammentarie a disposizione, comunque, vedo che il 2 aprile il quotidiano di Firenze La Nazione è in grado di lanciare un tempestivo allarme, due colonne in prima pagina a firma v.m., cioè a dire Vico Mantegazza, il direttore.
«Nessuno può pensare di rendere responsabile un paese dell’atto di un criminale o di un pazzo», scriveva Mantegazza con ineccepibile buon senso, «ma ciò non toglie che l’impressione, se il fatto fosse vero, e coi particolari della prima versione, sarebbe assai dolorosa».
Mantegazza è crudamente esplicito sulle ragioni più vere del dolore italiano. Chi conosce, come lui ben conosceva, l’eccitabilità dell’opinione pubblica americana poteva facilmente comprendere come una tale notizia potesse nuocere seriamente alla nostra emigrazione negli Stati Uniti (che proprio nel primo trimestre del 1909, informò qualche giorno dopo un funzionario del governo, aveva avuto una ripresa precipitosa, oltre 100.000 persone, un numero di gran lunga superiore a quello di qualsiasi periodo precedente). Il danno sarebbe stato particolarmente grave a New York dove gli italiani non sono generalmente troppo ben veduti neanche dalle classi operaie, perché lavorano a prezzi più miti dell’operaio americano. I giornali ne avrebbero parlato per chi sa quanto tempo non risparmiando i soliti attacchi verso i nostri connazionali.
Mantegazza era uomo di mondo, inviato speciale di vasta esperienza, appena rientrato in Italia da un viaggio Agli Stati Uniti di cui avrebbe reso conto di lì a pochi mesi in un libro di questo titolo e di più minaccioso sottotitolo, Il pericolo americano. Non si nascondeva che vi sarebbero certamente stati, laggiù, anche quelli che avrebbero colto l’occasione per attaccare l’ex-presidente, dicendo che in fondo, l’italiano che lo aveva minacciato gli aveva reso un grande servizio, a quell’uomo sempre desideroso di réclame.
«Il gran timore di Roosewelt», dice Mantegazza (e anche il titolo dell’articolo propone l’errata ortografia del nome pur famosissimo, A proposito dell’attentato a Roosewelt) – «Il gran timore di Roosewelt e dei suoi amici è che il pubblico si dimentichi di lui. E l’attentato, vero o falso che sia, serve a richiamare l’attenzione. Per la stampa americana non c’è nulla di sacro, e non vi è alcun dubbio che la notizia darà un’altra volta argomento ai caricaturisti dei giornali umoristici di riprodurre Roosewelt con una corona imperiale in testa, e con un gran spadone al fianco».
Per questi e per altri motivi, a Gibilterra Roosevelt era irritato per la notizia che affermò essere priva di fondamento. Espresse il più vivo desiderio di vedere pubblicata la smentita in forma categorica: l’incidente era inventato di sana pianta. Già dopo le Azzorre, informato delle voci in circolazione, aveva voluto scendere nel reparto di terza classe del piroscafo, dove si trovavano parecchie centinaia di emigranti italiani, per dimostrare che non aveva alcun timore di loro e che li riteneva incapaci di commettere un simile atto; ed è lecito chiedersi se per la bontà o l’inadeguatezza della razza.
Il gesto fu accolto con una entusiastica ovazione.
Una fanciulla gli offerse un mazzo di fiori, scovato chissà dove, in terza classe.
A Napoli, i preparativi per il suo arrivo, per garantire la tutela della sua incolumità, divennero, malgrado tutto, comprensibilmente frenetici.
Una squadra di detectives americani, quegli stessi che negli Stati Uniti erano assegnati alla persona del presidente, erano in città e perlustravano il porto da parecchi giorni, prendendo nota di tutti i passeggeri che sbarcavano e seguendo il movimento della nuova stazione marittima. L’area di attracco dell’Hamburg era completamente e strettamente sorvegliata da marinai, carabinieri, guardie. Tre barche armate della capitaneria, il Nettuno, il Narvaloe la barca numero 62, facevano servizio di ordine pubblico nelle acque della rada, comandate da sottufficiali, e al momento opportuno avrebbero impedito alle imbarcazioni di curiosi specialmente stranieri, che si prevedevano numerose, di avvicinarsi troppo. L’accesso al molo sarebbe stato consentito solo alle autorità e ai giornalisti muniti di tessera speciale rilasciata personalmente dal questore commendator Castoldo.
I piani prevedevano che, nei suoi giri per Napoli, Roosevelt sarebbe stato scortato da detti detectives e da agenti italiani alle dipendenze di un commissariato di pubblica sicurezza.
Agenti ciclisti, per la precisione.
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