

Lo Stonewall National Monument, così designato dal presidente Barack Obama nel 2016, è il più importante memoriale che «onori l’ampio movimento per l’eguaglianza LGBT» negli Stati Uniti. (Poche righe ritagliate e adattate dalle pagine 228-233 del libro qui accanto, appena pubblicato; nel libro, naturalmente, c’è molto più sugo.)
Lo Stonewall National Monument è un pezzo di Manhattan, quella porzione del Greenwich Village che comprende Christopher Street e lo Stonewall Inn. A cominciare dalle prime ore del 28 giugno 1969, e per una settimana, l’area fu teatro di una rivolta di strada contro la polizia che regolarmente importunava gli avventori dello Stonewall, un bar gay; fu in quel luogo e in quei giorni che, secondo leggenda e un po’ anche secondo storiografia, nacque il moderno movimento americano per i diritti degli omosessuali. Il «monumento nazionale» include dunque alcune strade e un parco ottocenteschi. Include anche, a Christopher Park, un monumento nel senso più corrente del termine, un gruppo di statue aggiunto nel 1992 e intitolato Gay Liberation Monument.
Il gruppo di statue è di George Segal, un esponente della Pop Art, e ha una storia complicata come si addice al primo pezzo d’arte pubblica pensato per commemorare cose pubblicamente controverse. Raffigura due coppie di persone in bronzo dipinto di bianco, life-size, una soluzione estetica usata spesso dall’artista. Una coppia di uomini è in piedi, una coppia di donne è seduta su una panchina. L’atteggiamento è quello di un tranquillo incontro in un ambiente sicuro fra individui dello stesso sesso che hanno rapporti romantici, si toccano e si guardano negli occhi, non lo nascondono ma non lo esibiscono; è in aperto contrasto con le immagini sensazionalistiche e ipersessualizzate della gay culture allora prevalenti nei media popolari. L’opera fu voluta da alcuni attivisti e commissionata nel 1979, in occasione del decennale degli Stonewall Riots. […]
Con il passare del tempo, dentro la comunità LGBTQ+ emersero voci sempre più critiche del messaggio che le statue incarnavano. Perché solo persone bianche? Perché così middle class? In verità, perché così coppie? Perché l’apologia di stabili relazioni monogamiche, praticamente matrimoni? E infine, perché quattro figure tranquille «invece di un mucchio di drag queen che tirano tacchi a spillo [alla polizia] e strappano parchimetri dal marciapiede?». Il monumento non rappresentava tutte le anime della comunità, ne rifletteva solo quella più conservatrice; cancellava le persone gender-nonconforming e di colore. In effetti di queste ultime cancellava il ruolo storico che avevano avuto proprio nell’innescare e condurre i moti di Stonewall.
Fu così che nel 2015 due anonime attiviste queer dipinsero di marrone le facce e le mani dei due maschi bianchi, li vestirono in drag con parrucche e reggiseni, e lasciarono un cartello di protesta: «Donne trans nere e latine hanno guidato i riots – Stop the whitewashing». Intervistate da media amici spiegarono che li avevano dipinti «perché Marsha P. Johnson, Sylvia Rivera, […] e tutte le altre persone Black & Brown che hanno avuto ruoli di leadership nel movimento meritano che sia riconosciuto il loro coraggio. Quello che abbiamo fatto è una rettifica, non vandalismo».

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