
«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». È il celebre primo comma dell’Articolo 1 della nostra Costituzione.
Cioè? Che cosa vuol dire? Che cosa vuol dire «lavoro»?
A volte, per capire meglio, la traduzione in un’altra lingua aiuta. E tuttavia nelle traduzioni ufficiali in inglese ci sono almeno due versioni, il che non mi aiuta a capire, in effetti mi confonde. La traduzione offerta dalla Camera dei deputati sul suo sito ufficiale dice: «Italy is a democratic Republic, founded on work». La traduzione del Senato è diversa (e ignora anche la virgola, cosa che non si può fare in un testo sacro, dove spesso le virgole sono tutto): «Italy is a democratic Republic founded on labour».
Work o labour dunque. Che non sono la stessa cosa. Mi sembra che work sia più neutro o forse proprio sbagliato in questo caso (attività), labour è invece più politico (salario vs profitto)? Almeno secondo il dizionario Merriam Webster, le cose stanno così.
Work: activity in which one exerts strength or faculties to do or perform something; activity that a person engages in regularly to earn a livelihood. Labour/Labor: human activity that provides the goods or services in an economy; the services performed by workers for wages as distinguished from those rendered by entrepreneurs for profits.
E dunque, costituzionalmente parlando, di nuovo: «lavoro» in italiano che cosa vuol dire?
Non sono un esperto di queste cose, quindi mi limito a cercare lumi nei verbali dell’Assemblea costituente che, per mia fortuna, sono integralmente disponibili online.
Il dibattito sul primo comma dell’articolo 1 avviene il 22 marzo 1947, nella seduta pomeridiana (vedi qui). Il testo che arriva all’attenzione dice semplicemente «L’Italia è una Repubblica democratica». Ci sono in ballo tre emendamenti provenienti da tre forze politiche diverse: «L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori» (dai comunisti, Giorgio Amendola e altri, fra i quali Nilde Iotti, a cui si associano i socialisti, Lelio Basso e altri, fra i quali Pietro Nenni); «fondata sul lavoro» (dai democristiani, Amintore Fanfani e altri, fra i quali Aldo Moro); «fondata sui diritti di libertà e del lavoro» (dai repubblicani, Ugo La Malfa e altri, fra i quali Tristano Codignola).
L’emendamento proposto dai socialcomunisti non viene approvato (troppo di sapore «sovietico»?). A questo punto bisogna scegliere fra l’emendamento dei democristiani e quello dei repubblicani, e i socialcomunisti convergono sul primo.
Palmiro Togliatti dice: di fronte all’alternativa che abbiamo, «noi preferiamo la formula proposta dall’onorevole Fanfani. Il motivo mi sembra evidente, prima di tutto la formula del collega Fanfani è quella che più si avvicina a quella che noi avevamo presentato, per questo semplice motivo mi sembra che noi avremmo il dovere di votarla. Per la sostanza, la formula “Repubblica fondata sul lavoro” si riferisce a un fatto di ordine sociale, e quindi è la più profonda; mentre la formula che viene presentata dall’onorevole La Malfa ed altri colleghi, trasferendo la questione sul campo strettamente giuridico e introducendo anche una terminologia poco chiara e poco popolare sui “diritti di libertà” e “di lavoro”, ci sembra sia da respingere».
(Qui Togliatti ciurla un po’ nel manico, nella proposta repubblicana che parla di diritti ci vede solo la dimensione giuridica – e quindi, per qualche motivo, poco «popolare»?)
Comunque. La formula entrata in Costituzionale è dunque del democristiano Amintore Fanfani, che quel pomeriggio ne offre questa interpretazione: «Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale».
E aggiunge: «Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune».
La formula e l’interpretazione autentica di Fanfani hanno poco di lavorista o tanto meno di socialdemocratico o di laburista nel senso di movimento operaio, mi sembra. Vengono da una cultura diversa, e comunque hanno una virtù: sono abbastanza vaghe e generiche e interpretabili (virtù suprema nei testi sacri) da attrarre il voto dei socialcomunisti di Togliatti e Basso come (loro) compromesso. Ai miei orecchi ricordano piuttosto un certo repubblicanesimo democratico americano, la repubblica del common man, la repubblica del self-made man nel senso originario ottocentesco, il membro della comunità, il cittadino che si fa con il suo lavoro, la sua attività, non perché sia erede di privilegi. Ma chissà.
- Che cosa c’è in una fotografia?
- “Era proprio sulla storia americana, delineata nella sua forma più ispiratrice, che contavamo per proteggerci contro Lindbergh”
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