
Nella loro storia di 250 anni senza alcuna interruzione di regime costituzionale ma ovviamente, come tutti i paesi, con parecchi periodi di crisi e di emergenza (in 250 anni, capita), gli Stati Uniti hanno accumulato parecchie leggi straordinarie adottate per affrontare quelle emergenze là. Leggi per natura un po’ sbrigative, viste le occasioni della loro nascita. Una volta usate, e finite le emergenze, quelle leggi sono state messe da parte, per decenni, per secoli, dimenticate dai più, ma non abolite. Sono quindi rimaste nella cassetta degli attrezzi da cui, nel caso, si può pescare.
Mettiamo che, con qualche malizia, al governo di oggi serva uno strumento per espellere dal paese un po’ di gente fastidiosa? Ma prego, ecco gli Alien and Sedition Acts (ASA) di più di due secoli fa (1798)! Mettiamo che serva un marchingegno per imporre dazi a destra e a manca? Ecco l’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA) di mezzo secolo fa (1977). In questi casi per attivare le leggi di emergenza ci vorrebbe una, ebbene sì, emergenza nazionale di qualche tipo ma, in mancanza di meglio, in mancanza della cosa vera, basta una dichiarazione a tal fine, magari un po’ forzata.
Una dichiarazione di emergenza nazionale, dunque, da parte di chi?
E lì sta il trucco. Sempre di più, nella lunga storia di 250 anni ecc. di cui si diceva all’inizio, la dichiarazione ha da essere da parte non del Congresso ma del Presidente stesso, con controlli congressuali a posteriori sempre più laschi. Il National Emergencies Act (NEA) regola la faccenda dal 1976. Con il NEA il Congresso autorizza il Presidente, previa appunto una sua dichiarazione di emergenza nazionale, a usare certi poteri speciali per affrontare certe circostanze speciali, dicendo nel modo più chiaro e rigoroso possibile il perché e il percome. Con la clausola che l’emergenza non può durare per sempre, se no che emergenza sarebbe, ma solo per un anno, rinnovabile.
Tranquilli? Insomma. Dal 1976 sono state dichiarate 90 emergenze nazionali e, perbacco, 49 sono ancora in vigore, rinnovate ogni anno dal Presidente quasi di routine. Non sono cose drammaticissime, come potrebbe suggerire il nome, riguardano situazioni in cui all’esecutivo si chiede di agire con rapidità e qualche discrezionalità. Per dire, ancora ce ne sono del tempo di Bill Clinton sul blocco dei traffici di armi e narcotici, o di George W. Bush sulle restrizioni anti-terrorismo post 11 settembre, o di Obama sulle sanzioni contro persone e proprietà russe dopo i fatti di Ucraina del 2014. E così via.
Tutto ciò è avvenuto senza che il Congresso dicesse ba, cioè con il suo consenso. Nel caso che invece fosse in dissenso oppure che il Presidente andasse proprio fuori dal seminato inventandosi emergenze nazionali che non esistono per poter fare azioni emergenziali, tipo deportare gente senza processo, o daziare il mondo, che cosa potrebbe fare il Congresso? Semplice, votare una joint resolution per terminare lo stato di emergenza, e quindi privare il Presidente di quei poteri. Non così semplice, in effetti, c’è qui una specie di Comma 22. Per entrare in vigore l’atto che imbriglia il Presidente ha bisogno della firma del Presidente, e quindi dovrebbe essere a prova di veto.
Per superare l’eventuale veto presidenziale dovrebbe essere adottato dai due terzi dei membri di Camera e Senato. Da una supermaggioranza bipartisan, insomma.
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