Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Un cambiamento di regime?

E allora, c’è o c’è stato, oppure ci sarà un cambiamento di regime negli Stati Uniti? 

Chiariamo subito una cosa. Con regime change qui non si intende la crisi né tanto meno la fine, il crollo!, del regime costituzionale liberal-democratico, per questo bisognerà aspettare ancora. Si intende piuttosto la possibile trasformazione del regime politico-sociale repubblicano conservatore (reaganiano, si diceva) nato mezzo secolo fa in un regime diverso, pienamente costituzionali e democratici entrambi ma con alle spalle diversi arrangiamenti di autorità e potere, diverse policies di governo e coalizioni elettorali, diversi interessi prevalenti. Per capirci: il New Deal fu un cambiamento di questo tipo. Il regime rooseveltiano che si fondò allora (presidenza forte, stato federale interventista, welfare state, classe operaia organizzata, internazionalismo multilateralista) plasmò la storia americana fino al nuovo regime, quello creato dalla “rivoluzione” di Ronald Reagan appunto, sotto cui gli Stati Uniti continuano a vivere.

Vivendone gli spasmi disordinati, anche violenti.

Un regime implica durata, relativa stabilità nel tempo, sennò si userebbe un’altra parola per definirlo, ma non immobilismo. Può contenere adattamenti, declinazioni, torsioni. Il regime reaganiano, per esempio, ha sviluppato al suo interno la versione neoliberale dei New Democrats alla Bill Clinton: “meno stato, più mercato” dunque, deregulation dell’economia, welfare state messo in un angolo, ma anche inclusioni di nuovi diritti individuali nell’ambito di accese guerre culturali. Con Barack Obama quest’ultima versione light trionfò ma anche mostrò delle crepe. La coalizione democratica che lo fece vincere, fatta di ceto medio progressista, minoranze etniche e razziali e cittadini di recente immigrazione, di cui Obama era scandaloso e brillante simbolo in prima persona, sembrava destinata a restare maggioritaria nel paese. In modo stabile, aprendo a un futuro diverso. 

La sua riforma più significativa, la riforma sanitaria, Obamacare, indicò un nuovo interventismo statuale nelle faccende sociali e di mercato. E ciò apriva, in maniera più specifica, proprio a un possibile diverso regime. 

L’elezione di Donald Trump nel 2016 fu la reazione a questa ipotesi di cambiamento. E poco più che una reazione allora sembrò: rabbiosa, demagogica, autoritaria per istinto ma dilettantesca; minoritaria nel voto popolare, resa possibile solo dai meccanismi anti-maggioritari del sistema elettorale presidenziale; anti-internazionalista (“America first”) ma piuttosto pasticciona. E sostenuta da movimenti ultraconservatori con inclinazioni White suprematist e da un elettorato popolare antistatalista, soprattutto contro il governo federale, e timoroso dei cambiamenti demografici, di cui di nuovo Obama era scandaloso e odiato simbolo in prima persona. Trump era un presidente senza precedenti perché Obama era stato un presidente senza precedenti. 

Ma insomma, Obama sembrava la storia, Trump un rigurgito.

Il democratico Joe Biden che sconfisse Trump nel 2020 era convinto più di tutti che il regime fosse arrivato al capolinea, e che la sua vittoria fosse il segno che ne stava nascendo uno nuovo. Era il momento, disse Biden, di favorire questa nascita, questa rottura epocale, e di “cambiare il paradigma” nelle politiche pubbliche. La coalizione obamiana avrebbe dovuto rimpolparsi incorporando di nuovo la maggioranza della vecchia classe operaia bianca che nel frattempo si era smarrita. Per farlo ci voleva il ritorno a una politica industriale positiva che riportasse la manifattura e le supply chains produttive in patria, ci voleva il ritorno a un energico big government riformatore  come ai tempi del New Deal. Ci voleva un ritorno all’internazionalismo delle alleanze e delle organizzazioni multilaterali. 

Il cuore teorico della scommessa di Biden era che la presidenza Trump fosse l’episodio terminale, esausto e degenerato della lunga fase conservatrice, la presidenza di un solo mandato che chiudeva un ciclo. 

Non è stato così. Le bizzarre vicende del 2024 hanno fatto sì che il presidente one-term fosse Biden. Le sue politiche sono state inefficaci, o lente a produrre effetti, o proprio sbagliate. Forse il vecchio Joe ha fatto la respirazione bocca a bocca a un Novecento, il suo secolo, ormai archiviato? Il punto è se il ritorno di Trump sigilli l’emergere di un nuovo regime di tipo diverso da quello che si chiude e da quello che Biden non è riuscito a inaugurare. L’energia nervosa e inebriante di un presidente ringiovanito dalla rivincita (comeback kid straordinario come raramente nella storia nazionale) e di oligarchi miliardari all’apice della potenza, sembra esserci, esibita con gusto in ogni piega delle cerimonie di insediamento della nuova amministrazione. C’è la determinazione a un uso vigoroso del governo per smantellare i lacci e laccioli del governo, un iper-liberismo con giudizio che non esclude giudiziose tariffe doganali e avventure coloniali old-fashioned. E questa volta niente dilettantismo, tutto è preparato a dovere, o almeno lo è la prima ondata di decreti-bandiera, gli executive orders di questi giorni.

Ci sono anche le gambe per consolidare questo successo nella società e nell’elettorato?

Dal novembre scorso Trump racconta di una sua “vittoria storica” con un mandato popolare “mai visto prima” (come dice di tante cose della sua epica vita). Lo ripete così spesso che ormai ci crede anche lui. Ma non è vero. Dal punto di vista del voto popolare Trump è stato eletto con un modesto vantaggio di routine, il 49,7% dell’elettorato contro il 48,3% di Kamala Harris, un margine di 1,4 punti percentuali, poco più di due milioni di voti. Tutti gli altri presidenti prima di lui, dal 1968 in poi, tranne George W. Bush nel 2000 e lo stesso Trump nel 2016 che il voto popolare l’hanno proprio perso, hanno fatto meglio di lui. Trump è l’ultimo della lista, per giunta è un plurality President, neanche ha avuto la grazia della maggioranza assoluta. Nello scontro diretto del 2020 Biden ebbe su di lui una vittoria ben più solida, con la maggioranza assoluta, 51,3% contro 46,8%, e con un distacco di 4,5 punti percentuali, sette milioni di voti. E dopo quattro anni nulla ne è rimasto.

Sono i normali alti e bassi di una ordinaria alternanza di partito? In un ambiente molto polarizzato, diviso a metà, come succede da tempo? Oppure, al di là dei numeri piccoli e delle parole grosse, e le parole contano, ci sono cambiamenti strutturali nella collocazione politica degli elettori? Qualche novità c’è. C’è l’aumento del voto repubblicano in certe aree middle-class urbane e suburbane in genere democratiche, che restano democratiche ma con maggioranze meno ampie. E c’è la decisa incursione repubblicana fra gli elettori ispanici e, meno decisa, fra gli elettori afroamericani, anch’essi in genere democratici. Questi movimenti offrono delle opportunità. Per i repubblicani favorire la conversione di pezzi di gruppi etnici non eurodiscendenti potrebbe voler dire superare la frattura di razza, la netta linea del colore che ha caratterizzato l’avventura più schiettamente MAGA, lily-white, bianca come il giglio. Potrebbe allargare la loro base, perfino fare il bene del paese. 

Vasto programma?

Resta in tutti la convinzione “eccezionalista” di cercare nel passato le fonti di ispirazione e legittimazione per pensare il futuro, la fede in una continuità della storia nazionale che conferisce senso e vigore ai cambiamenti più radicali. Roosevelt voleva cacciare i mercanti dal tempio, restituire il tempio della repubblica alla purezza originaria. Reagan considerava il Novecento del big government tassa-e-spendi un gigantesco errore, aspirava al ritorno allo stato minimo dell’America ottocentesca. Per Biden l’età dell’oro a cui tornare era quella prima di Reagan, l’età del New Deal. Trump evoca William McKinley (non è che porti tanto bene, fu assassinato da un anarchico) e l’impetuosa crescita economica e imperialista di fine Ottocento. Per gli avversari di Trump l’epoca evocata è la Gilded Age, superficialmente gilded, dorata, a coprire enormi diseguaglianze e il dominio di pochi. Per Trump è la metafora della sua Golden Age, oro vero.

Viene in mente Back to the Future. Era uno dei film preferiti di Reagan, ma con tutta evidenza il titolo suggerisce sentimenti più generali, di tanti. E a quale futuro ritornare, forse gli americani non l’hanno ancora deciso. 

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