Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

I monumenti non sono per sempre. Che cosa le controversie monumentali americane non sono

From now on you’ll be history.
You’ll be history, you’ll be history, you’ll be history.
And we will glorify your name.
You will be a bust, be a bust, be a bust
In the Hall of Fame!

– Wizard of Oz (il film, 1939)

Gli amici e le amiche di “Memoria e Ricerca” hanno conferito al mio libro, I fastidi della storia. Quale America raccontano i monumenti (Il Mulino 2023), il premio della loro associazione per l’anno 2024. La premiazione è avvenuta a Bologna nel pomeriggio di venerdì 6 dicembre 2024. Il testo che segue è una rielaborazione degli appunti che ho usato per la mia presentazione, più “scritta” e senza il fastidioso mal di gola di quel giorno. 

Innanzitutto grazie per la calorosa accoglienza. Grazie a Francesca Bertuzzi, della casa editrice Il Mulino, che è stata anche la mia editor. Insieme a lei ho fatto il viaggio che ha prodotto questo libro, ed è stato un bel viaggio. Grazie agli amici e alle amiche di “Memoria e Ricerca” per la generosità del premio e in particolare a Luigi Tomassini e a Maurizio Ridolfi, oggi qui portatori di doni. Generosità e doni molto apprezzati per molti motivi. Intanto perché, in generale, fa piacere essere premiati. E poi perché, in questo caso, il riconoscimento viene da una rivista autorevole in un campo di ricerca in cui sono entrato in punta di piedi, acquisendo gli strumenti specifici del mestiere (e forse non tutti) mentre procedevo nel lavoro. Un lavoro che, immagino sia chiaro al lettore, è fatto di un accumulo di storie, ciascuna delle quali è stata anche, per me, una sorta di seminario sulla storiografia. Un seminario spesso condotto con amici e colleghi, con mio grande piacere e profitto. 

L’occasione che ha fatto scattare la curiosità che è poi diventata questo libro, è stata l’ondata antimonumentale che ha colpito gli Stati Uniti nel primo ventennio di questo secolo e che ha avuto un picco nel 2020. L’estate di quell’anno è stata particolarmente drammatica e fitta di avvenimenti. E’ l’estate della grande pandemia, è l’estate di una cruciale campagna elettorale presidenziale (l’allora presidente Donald Trump fu sconfitto da Joe Biden), è l’estate delle grandi proteste antirazziste per l’assassinio del cittadino afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, in Minnesota. Ed è l’estate degli stonebreakers, dei contestatori e talvolta dei distruttori di monumenti. 

Fenomeni simili, contestazioni o rimozioni di monumenti, sono accaduti in questi anni in paesi simili, liberal-democratici, in Gran Bretagna, in Francia, qualcosa in Italia, ma in maniera meno intensa. Sono accaduti in paesi autocratici che hanno visto improvvisi crolli dei loro regimi. Una trentina d’anni fa, dopo la fine dell’Unione Sovietica, sono accaduti in Russia e in altre formazioni statuali post-sovietiche; in Ucraina ci fu una morìa di statue di Lenin, come ha raccontato in un bel libro recente Antonella Salomoni. Io sono uno storico degli Stati Uniti, e quindi sono andato a vedere più da vicino che cosa stesse succedendo colà, oltre il velo del clamore che rimbalzava sui media internazionali, oltre il velo dello scandalo, delle risse ideologiche. E le mie domande erano: quale America raccontassero questi eventi e i monumenti che ne erano, loro malgrado, i protagonisti. E partendo da lì, quale America raccontassero anche i monumenti che sembravano più tranquilli, alcuni dei moltissimi monumenti nella lunga storia del paese.

Le risposte, le mie risposte, a queste domande sono nel libro che avete premiato. Qui oggi vorrei condividere alcune riflessioni elaborate con il senno di poi, guardando indietro a lavoro concluso. Riflessioni che sono tutt’altro che conclusive. Sono piuttosto provvisorie, interlocutorie. Ci giro intorno da un anno, ne ho discusso in varie occasioni, anche sulle pagine di “Memoria e Ricerca”, le ho aggiustate e cambiate in corso d’opera. E cercano di dialogare con certe posizioni che sono emerse e continuano a emergere, su entrambe le sponde dell’Atlantico, nel dibattito pubblico sui monumenti e il loro significato. Il titolo (brutto e lungo, ma più completo) di queste riflessioni potrebbe essere: che cosa le critiche e le contestazioni antimonumentali, anche quelle di strada, anche quelle violente, in effetti non sono.

1. Contestare i monumenti non è una novità

Il primo punto è banale, ma va detto. E cioè: prendersela su con i monumenti non è una novità. Di monumenti davvero tranquilli, almeno nella storia americana che ho esplorato, mi sembra proprio di averne incontrati pochi, forse nessuno. Certo questa non è cosa che vada detta in questa occasione, a noi qui, che di queste mancanze di tranquillità facciamo mestiere. Neanche è cosa che andrebbe detta agli storici di qualunque disciplina e fede, perché da storici dovremmo sapere che così va il mondo. E’ invece spesso una rivelazione per gli osservatori laici, per i non addetti ai lavori, come ho constatato presentando il libro con il pubblico generale o in qualche scuola media superiore. Per molti sembra che i monumenti siano un dato di natura. Sono sempre stati lì, dicono, fanno parte del paesaggio, comunque che male fanno, e così via. Ciò è vero soprattutto per i monumenti più antichi o i più vecchiotti, o almeno quelli più vecchiotti per le persone con cui si parla. Perché le generazioni passano velocemente, di uno studente liceale mi ha colpito questa frase, “i monumenti ai nostri antenati, i partigiani”.

Dunque, banalmente, i monumenti sono oggetti controversi. Anche nel passato più lontano, sono stati al centro di dibattiti pubblici e quindi politici: se farli, come farli, prima di farli, dopo averli fatti, e anche se e come rimuoverli. E questo è il cuore problematico e anche narrativo del libro, delle sue 250 pagine che coprono tutto l’arco della storia nazionale.

E’ sorprendente e addirittura divertente ricordare come l’inaugurazione di una grande icona nazionale, la Statua della libertà, il 28 ottobre 1886, sia stata accompagnata da manifestazioni di protesta delle attiviste suffragiste di New York. Che dicevano: avete preso una figura femminile per evocare la libertà? Vergognatevi, certo non evoca la libertà femminile, la libertà delle donne. “Le donne americane non hanno alcuna libertà!”. La cerimonia è una “vuota farsa”! Alla cena di gala quella sera persino un oratore maschio, maschio ma sensibile, azzardò: se Lady Liberty fosse una donna reale, le sarebbe impedito di votare.

Più interessante è forse il caso di un’altra icona nazionale che oggi ha molti più guai della Statua della libertà, e che ha cominciato ad avere guai parecchio tempo fa. E cioè Cristoforo Colombo. Mi riferisco a questo Cristoforo Colombo (qui sotto), in piedi, corazzato, con accanto una donna nativa in ginocchio, inaugurato a metà Ottocento sulla scalinata del Campidoglio a Washington, D.C.  E infine rimosso a metà Novecento. Rimosso nel 1958, non nell’incandescente 2020. Dalle autorità del Congresso degli Stati Uniti, non da vandali di strada. E certo, questo sì, dopo mezzo secolo di proteste dei movimenti Native American che lo vedevano come una pubblica umiliazione, violenta, razzista.

Quindi la questione non è se i monumenti siano controversi, lo sono da sempre. E’ piuttosto perché oggi le controversie siano diventate manifestazioni di massa, collettive, ripetute, talvolta persino incidenti di piazza.

Discovery of America (1844), di Luigi Persico, marmo, U.S. Capitol, Washington, D.C.
(rimosso nel 1958)

2. Contestare i monumenti non è anti-patriottico

Secondo punto. Contestare i monumenti non è anti-patriottico. Può essere addirittura una sacra imitazione dell’atto patriottico che sta all’origine simbolica degli Stati Uniti. E cioè l’abbattimento della statua equestre del re britannico George III a New York, sulla punta di Manhattan, da parte di una folla di cittadini e soldati rivoluzionari il 9 luglio 1776. Cinque giorni dopo la pubblicazione della Dichiarazione di indipendenza. 

L’evento è molto noto, anche se di rado si riflette sul suo significato in rapporto alla storia dei monumenti. E’ un atto fondativo, significa indipendenza contro impero, repubblica contro monarchia. E come tale è ricordato e celebrato ogni anno, ogni Quattro di luglio, Independence Day. Mark Twain ne sottolinea in modo ironico l’evocazione di routine nelle orazioni di quel giorno (le “orazioni del Quattro di luglio” sono un genere standardizzato più che bisecolare). Quel giorno, dice Mark Twain, in cui la Dichiarazione di indipendenza viene “scagliata addosso alle ossa di un monarca fossile, … morto tutti questi anni, e … gli sarà scagliata addosso annualmente finché questa repubblica vivrà”. 

In effetti nella lunga vita della repubblica l’evento ritorna continuamente, in quadri e stampe, in pageants e re-enactments. Ha una sua storia sociale nella cultura popolare e nella cultura pop. E talvolta è associato iconograficamente, senza dubbio da chi guarda e fotografa (qui sotto), ma sospetto anche da chi organizza, agisce, mette in scena, agli eventi di strada di questi ultimi anni. E’ possibile che aggredire monumenti sia un atto compiuto nello spirito rivoluzionario delle origini della repubblica? La risposta a questa domanda dipende da chi parla e di quale monumento si stia parlando.

L’allora presidente Donald Trump in due diverse Fourth of July orations ha dato due risposte distinte. Il 4 luglio 2019 a Washington, D.C., davanti al Lincoln Memorial, dice più o meno: i distruttori del monumento del 1776 sono i nostri eroi, i patrioti, i veri padri fondatori. Un anno dopo, nel mezzo della lunga estate delle proteste del 2020, il 4 luglio 2020, in South Dakota davanti a Mount Rushmore, dice: i distruttori dei monumenti di oggi sono fascisti di estrema sinistra (“far-left fascism”), dovrebbero beccarsi dieci anni di galera.

Pulling down the Statue of King George III at Bowling Green, N.Y., July 9, 1776 (1856),
di William Walcutt, Lafayette College, Easton, Pennsylvania
Protesters Fail to Pull Down the Statue of Andrew Jackson in Lafayette Square,
near the White House, on June 22, 2020 (Drew Angerer / Getty Images)

3. Contestare i monumenti non è anacronistico

Terzo punto. Contestare i monumenti non è anacronistico. Non sempre, non necessariamente. E’ una faccenda delicata, sollevata spesso. E’ possibile che un monumento appaia imbarazzante, per esempio paternalista e razzista, alla sensibilità nostra ma non a quella dei nostri bisnonni? Valutare e criticare il passato con i criteri del presente è facile, è sleale, è una forma di violenza sulla storia, di violenza dei viventi sugli antenati (cosa penseranno i nostri bisnipoti di noi?). Il passato è un paese straniero, là fanno le cose in maniera diversa. E così via. Queste sono considerazioni fondate che vanno al cuore del nostro mestiere di storici. Che tuttavia, proprio da storici, è bene verificare empiricamente caso per caso. E l’analisi empirica dice che, in molti casi, le cose non stanno così. Molte statue contestate nel presente sono state criticate nel passato, fin dal loro concepimento, con criteri di allora da persone di allora, con parole simili a quelle dei contestatori di oggi. 

Per dire, questo monumento a Abraham Lincoln (qui sotto), che certi manifestanti avrebbero voluto rimuovere nel 2020, fu criticato come paternalista e razzista da uno degli oratori ufficiali alla cerimonia ufficiale di inaugurazione nel 1876. L’oratore era il grande abolizionista nero Frederick Douglass, e disse: un ex schiavo raffigurato in ginocchio? Non se ne può più. “Ciò che voglio vedere prima di morire è un monumento che rappresenti il nero, non piegato sulle ginocchia come un animale a quattro zampe, ma eretto in piedi come un uomo”.

E ancora: Prendete i monumenti dei generali sudisti, per esempio quello del generale Robert E. Lee, inaugurato a Richmond in Virginia nel 1890. E che sta sulla copertina del mio libro, e anche (già piuttosto decorato o vandalizzato) nel poster che annuncia questo nostro evento. Ecco, questi monumenti furono contestati da subito dai civil rights movements, anche nel Sud, anche in Virginia, finché ebbero la libertà di farlo. Poi, dopo il 1900, i movimenti nel Sud furono messi a tacere dai nuovi regimi segregazionisti, i regimi cosiddetti Jim Crow, che erano durissimi regimi di polizia, liberticidi. Ma le contestazioni, le critiche politiche e intellettuali sono continuate per tutto il Novecento.

E dunque critiche, contestazioni esistenti da sempre? Oggi con qualche successo, con maggiore impatto, maggiore risonanza? Perché oggi, qualcosa è cambiato?

Emancipation Memorial a.k.a. Freedmen’s Memorial to Abraham Lincoln (1876),
di Thomas Ball, bronzo, Lincoln Park, Washington, D.C.

4. Contestare i monumenti non è cancel culture

Quarto punto. Contestare i monumenti non è cancel culture (qualunque cosa cancel culture voglia dire in altri ambiti della vita culturale, ambiti che non ho studiato). A me sembra che coloro che criticano i monumenti, i critici culturali così come i manifestanti, anche quelli che vogliono vandalizzarli o rimuoverli, qualunque opinione si possa avere delle loro azioni e dei loro sentimenti, non intendano cancellare nulla della storia, non intendano igienizzarla, espellerne il male. E’ vero l’esatto contrario, il male lo vedono dappertutto. Niente più romanticherie su Colombo ammiraglio del mare oceano, sul generale Lee cavaliere genteel, su Lincoln martirizzato un Venerdì Santo, come Gesù, ma solo massacri, schiavitù, razzismo. In termini meno polemici, vogliono piuttosto, e lo dicono, discutere la versione della storia che quei monumenti glorificano, una versione che ritengono essa sì igienizzata, ripulita, parziale (o infame). Per raccontarne un’altra, che ritengono più accurata, più equa per gli antenati e per i viventi.

Una formula popolare che esprima questo atteggiamento è stata creata da alcune attiviste queer a proposito di una loro azione militante intorno al Gay Liberation Monument (qui sotto) nel Greenwich Village. Qualche anno fa, con il favore delle tenebre, cercarono di trasformare gli eroi degli Stonewall Riots, celebrati nel monumento come tranquilli borghesi in bianco, in squillanti agitatori da strada en travesti. Proclamando: “Quello che abbiamo fatto è una rettifica, non vandalismo”.

I monumenti, dicono i critici e gli attivisti, sono atti politici di memoria selettiva, atti di chi in quel luogo, in quel momento, abbia le risorse di potere per mettere in piazza ciò che sembra opportuno ricordare, quello e non altr0. E su questo, credo, gli storici non possono che concordare. Ogni indagine empirica che mi sia capitato di fare, o di cui leggere, lo suggerisce. I monumenti non sono innocenti e neutrali, nascono e viaggiano con un bagaglio, rivelano e nascondono, mostrano e cancellano. Insomma sono statements of power. Naturalmente il potere che dichiara e decide non è compatto e onnipotente, tanto meno lo è in regimi liberal democratici, pluralisti e conflittuali come, con tutte le fatiche del caso, il regime degli Stati Uniti. Quindi le risorse di potere utili possono essere di vario tipo e avere una pluralità di risultati. Possono produrre un panorama monumentale che non sia solo un autoritratto del tiranno. 

Diceva un party boss di Boston di metà Novecento: chi strilla di più, e ha i voti, ottiene il monumento. Che è una definizione plebea ma decente di una democrazia conflittuale. Oggi si può aggiungere: chi strilla di più, e ha i voti, ottiene la rimozione del monumento. Anche la rimozione è uno statement of power, di contropotere che magari diventa un nuovo potere che prima non c’era, o era debole e nascosto e ora è visibile e influente. 

Ancora una volta, dunque: qualcosa è cambiato? Oggi è diverso da ieri? Perché accadono con maggiore frequenza, e qualche successo, i movimenti iconoclasti?

5. Contestare i monumenti non è iconoclastia 

Movimenti iconoclasti? Ecco, questo è il quinto e ultimo punto. Contestare i monumenti non è propriamente iconoclastia. Un movimento iconoclasta rompe tutte le icone, è contrario a tutte le immagini, teme che possano diventare oggetto di venerazione, idolatria, culto della personalità. Ci sono senza dubbio segni di questi sentimenti alle origini della repubblica, nutriti di repubblicanesimo radicale e di radicalismo protestante. Affermazioni tipo questa dell’ex presidente John Quincy Adams nell’anno fatale 1831 (l’anno di Tocqueville in America): “la democrazia non ha monumenti. Non conia medaglie, non porta la testa di un uomo sulle monete, la sua stessa essenza è iconoclasta”. Ma non è questo il caso dei movimenti degli ultimi anni, che sono iconoclasti solo in senso generico e impreciso. Ce l’hanno su con certe icone, viste come ostili o insultanti. Ma sono ben disposti a sostituirle con altre, percepite come amichevoli e giuste, da venerare. 

E infatti le conseguenze sono di due tipi. La prima è che nuovi monumenti sono eretti di continuo. Un profluvio di monumenti, dedicati a cause che nel passato sembravano impopolari o dimenticate, a eroi o eroine rimaste semisconosciute, a eventi prodigiosi che rispecchino diverse prospettive sul mondo e sulla storia. La classifica delle cinquanta personalità più monumentalizzate d’America, ma persino la classifica , al suo interno, delle Top 10 (qui sotto), dice che il pantheon delle glorie nazionali, in questi anni tribolati, non si è impoverito. Tutt’altro, si è ampliato, arricchito, nulla è stato cancellato. Il pantheon ha guadagnato complessità storica. Comprende i soliti noti, tipo Colombo e Lee, ma anche new entry come Martin Luther King Jr.

La seconda conseguenza è altrettanto importante. Una volta passata l’onda d’urto delle proteste di piazza, si è avviata una conversazione di nuovo tipo. Non più contro i monumenti ma piuttosto su come innovare le forme di quelli da erigere ovvero su come risemantizzare quelli esistenti (e discutibili). E anche qui c’è una citazione adatta e popolare, tratta dalle riflessioni delle attiviste queer intorno al Gay Liberation Monumentdi cui ho parlato sopra. Che dice: “In un tempo in cui abbattiamo statue, penso che sia altrettanto importante considerare collettivamente che cosa mettiamo negli spazi pubblici, qual è il processo usato per erigere statue, come reimmaginare la funzione dei monumenti”.

6. Re-immaginare i monumenti? 

Reimmaginare i monumenti in positivo, dopo l’ondata negativa, critica, distruttiva: questa sembra essere la sfida più interessante degli ultimissimi anni. E’ una sfida che, al solito, ha una storia. Ha investito l’establishment politico nazionale, almeno dal Vietnam Veterans Memorial inaugurato a Washington, D.C., più di quaranta anni fa  (nel 1982); e chissà quali caratteri potrà assumere al tempo della seconda presidenza Trump. Ha investito e investe gli artisti più giovani e gli attivisti più radicali, come quelli queer appena ricordati, che operano a livello di grassroots e si appoggiano alle articolazioni decentrate del sistema federale, nelle città, negli stati; dove, credo, continueranno a operare anche al tempo di Trump Due. Ma su questi sviluppi, sulle direzioni che stanno prendendo o potranno prendere, non ho fatto ricerche serie, e non le farò perché mi sto occupando d’altro. Quindi non ho niente di serio da dire.

Ho solo suggestioni sparse e, per quel che ho visto, un po’ di scetticismo. Scetticismo che sintetizzo così. In una società erede (come tutte) di faide e ingiustizie sociali a gogo, con tante comunità diverse, oggi più di ieri con i nervi scoperti, con i nervi della memoria e delle identità scoperti, finché questi nervi resteranno scoperti, è davvero complicato immaginare monumenti a eventi o persone del passato che non rinnovino ferite dolorose nei cittadini del presente. E’ difficile immaginare memoriali che, con le migliori intenzioni, non finiscano per colpevolizzare non un re o un tiranno o un Cristoforo Colombo ben morti e sepolti (come il Giorgio III evocato da Mark Twain), che è cosa facile, troppo facile, bensì una parte sostanziosa di concittadini. Gente in carne e ossa con cui si condivide il pane, i marciapiedi, i luoghi di lavoro.

Per esempio, nel caso di Colombo, concittadini di discendenza italiana. Ecco cosa dice un attivista dell’American Indian Movement (qui sotto) agli italo-americani che, diventati attivisti essi stessi, attivisti in difesa, picchettano e difendono una statua di Colombo: “Voi non eravate là. Non l’avete fatto voi. Neanch’io ero là. Non è capitato a me… Non sentitevi in colpa… Ma ciò che dovete capire è che voi state ancora godendo i benefici derivanti da quelle atrocità. Io e la mia famiglia e il mio popolo stiamo ancora soffrendo di quelle atrocità. E’ su questo che dobbiamo confrontarci”. Appunto, sentitevi in colpa! Un bel problema, questo, per la convivenza civile. Quanti sensi di colpa siamo disposti a sopportare, nella nostra vita quotidiana?

American Indian Movement Member Mike Forcia, Who is Anishanaabe, Stands
on the Neck of a Statue of Christopher Columbus at the Minnesota State Capitol,
St. Paul, Minn., June 10, 2020 (Marianne Combs / AP).

7. Perché oggi, appunto? 

Concludo riprendendo un filo di riflessione a cui ho accennato più volte nel corso della chiacchierata e che ho lasciato volutamente in sospeso. E cioè: perché oggi? Perché certi monumenti sono diventati oggi un problema, un problema politico, un problema talvolta esplosivo, di ordine pubblico? 

Un risposta schematica, in poche parole, è questa: perché nell’ultimo mezzo secolo è cambiato il regime politico-sociale nel paese. E’ cambiata la politica, con la rivoluzione dei diritti civili, con la rivoluzione delle donne, e quindi con la presenza di nuove cittadinanze attive. E’ cambiata la demografia, con i nuovi cittadini immigrati, di colore. I cittadini bianchi di discendenza europea sono sempre di meno. Erano l’89% nel 1960, sono oggi il 58%, saranno minoranza (47%) nel giro di vent’anni. I cittadini afroamericani, i nuovi cittadini ispanici, asiatici, quelli ancora più recenti arrivati dal Medio oriente e dall’Africa subsahariana, sono già maggioranza nelle grandi città, vi hanno voce in capitolo, magari ne eleggono i sindaci. I sindaci che sono coinvolti nelle dispute sui monumenti. 

Questi nuovi cittadini (e nuove cittadine) si trovano di fronte, in strada, nelle piazze, un panorama di glorie nazionali fatto di maschi euro-bianchi che non li rappresenta. E che magari è percepito come ostile, contro di loro, celebra certi eroi che per loro sono mascalzoni, celebra certe cause che per loro sono calamità. Gli attivisti fra loro tentano quindi di cambiarlo, quel panorama, con qualche successo. Così facendo inevitabilmente innescano anche le reazioni, le paure, le resistenze, le contro-offensive della parte di popolazione che si vede privata di uno status a cui era abituata, fino ad allora indiscusso, o peggio, frutto di precedenti faticose conquiste. Nascono così nuovi attivismi conservatori. E’ la logica del cambiamento di regime. 

A volte il regime change è netto, improvviso. La Rivoluzione americana? Via la statua del re britannico. Il crollo dell’Unione Sovietica? Via le statue di Lenin. Negli Stati Uniti c’è stato un regime change politico-sociale non improvviso ma di lungo periodo, strisciante, spalmato su alcuni decenni ma reale. C’è stato ed è ancora in corso, e aiuta a spiegare non solo le guerre monumentali. Spiega le più generali tensioni sociali e culturali di cui le guerre monumentali sono sintomo e acceleratore. Spiega i conflitti e gli odii, la cattiveria e la brutalità degli scontri politici e elettorali che il paese ha conosciuto in questi anni, conosce in questi mesi, in questi giorni. E con questa notazione malinconica, ho detto tutto quello che avevo da dire.

Categorie:Uncategorized

1 risposta

  1. CIAO,

    Mi sono imbattuto nel tuo sito web http://www.shortcutsamerica.com e ho notato che hai ricevuto alcuni post interessanti dai contributori. Sono curioso di sapere se sul tuo sito web sono disponibili opzioni pubblicitarie, come guest post e contenuti pubblicitari. Puoi dirmi il prezzo se vogliamo fare pubblicità sul tuo sito web?

    Distinti saluti,
    mary com

    "Mi piace"

Lascia un commento