Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Chi vince e chi perde (appunti con molte parentesi) 

Quando vinci sei tutto contento, pensi di star seduto in cima al mondo. 

Donald Trump si è seduto sul governo federale degli Stati Uniti con una trifecta, una tripletta elettorale che significa governo di partito. Controlla la presidenza e tramite il suo partito entrambe le camere del Congresso (sia pure per pochi seggi). Ha vinto dove i repubblicani vincono di solito e in tutti e sette i swing states (in genere per un pelo, se no non sarebbero swing states). Ha anche il mandato del voto popolare, inutile per costituzione ma rilevante per la politica. Non è ancora finito il conteggio (quanto son lenti questi americani) ma dovrebbe avere un vantaggio sostanzioso, intorno ai tre milioni di voti. 

(E’ la prima volta che il candidato repubblicano vince il voto popolare dal 2004, è la seconda volta dal 1988.) 

Con il suo programma radicale, e con il dominio assoluto sul suo stesso partito, Trump sarà in grado di avviare un cambiamento del paese, più o meno a sua immagine e somiglianza? 

Be’, questo è proprio ciò che pensava di sé e della sua vittoria Joe Biden quattro anni fa. Vittoria che aveva conquistato nel collegio elettorale presidenziale (compresi sei dei sette swing states, per il solito pelo), alla camera e al senato (per i soliti pochi seggi), e anche nel voto popolare. Lì aveva raccolto una maggioranza di sette milioni di voti, più sostanziosa di quella di Trump. Anche Biden aveva insediato un governo di partito con programmi assai ambiziosi, sostenuto da un partito plurale e in genere litigioso ma in quel caso, con sorpresa di tutti, compatto e disciplinato.

L’età felice di Biden durò due anni. E dopo quattro anni il suo partito ha assaggiato l’amaro calice della sconfitta.

Quando perdi, lì per lì, vai nel pallone. Dove abbiamo sbagliato, ti chiedi ossessivamente? In ogni caso te lo spiegano gli altri dove hai sbagliato. 

L’elenco degli errori può essere lungo a piacere. L’inflazione provocata dagli enormi investimenti pubblici in ripresa economica e riforme strutturali, programmi troppo ambiziosi? Oppure non averne strombazzato abbastanza i successi? Il disordine alla frontiera e l’invasione di migranti? Il ritardo, ritardissimo di Biden nel farsi da parte? Kamala Harris candidata debole? Una campagna inventata in pochi mesi? Una campagna troppo centrista ovvero troppo woke? La persecuzione giudiziaria di Trump martire? Gli stupidi insulti degli ultimi giorni? Trump fascista, la spazzatura…?

(Tutto è un errore quando perdi, chi vince le indovina tutte.)

(Ah, la lucidità del giorno dopo.)

Elenchi ragionevoli, s’intende, a cui si aggiunge l’accusa definitiva per ogni partito vagamente di sinistra, l’accusa infamante, la bomba atomica: il partito democratico ha perso il contatto con il popolo!

Ora, non esageriamo. Dire che alla fine della storia il partito democratico “ha tenuto” non suona bene in italiano, è roba stantìa da sistema proporzionale di una volta. Nel sistema maggioritario, si sa, o vinci o perdi, vincere è tutto. Ma in effetti è vero che il partito ha tenuto. Ed è verissimo che il genio, la promessa del sistema maggioritario è che vincerai la prossima volta. 

Il paese resta diviso in due grandi blocchi. 

I democratici di governo del 2020 avevano il voto del 51,3% degli americani contro il 46,8% di Trump, un buon vantaggio ma non una landslide, non una valanga. I democratici d’opposizione di oggi, malgrado tutto, sembrano avere il 48,2% contro il 50,2% di Trump, valanga men che meno (le vere vittime di valanghe storiche si beccavano botte da 40% da Reagan, Nixon, Johnson). E dietro di loro c’è il partito degli stati e delle città, con salde radici negli snodi del sistema federale. 

(Qualunque film distopico hollywoodiano ti racconta che negli Stati Uniti non c’è un Palazzo d’inverno, preso il quale hai fatto tutto.) 

Insomma, le elezioni presidenziali del 2024 potrebbero concludersi con uno scarto fra vincitore e vinto di un paio di punti percentuali, uno scarto tipico di un regime di alternanza normale, normale e piuttosto ravvicinata. 

Ma questa del 2024 è una alternanza normale? 

Al di là dei numeri piccoli e delle parole grosse, e le parole contano, ci sono cambiamenti strutturali in atto, sotto sotto, nel regime politico-sociale? Qualche novità c’è, per esempio l’aumento, anche se non vittorioso, del voto repubblicano in certe aree suburbane tradizionalmente blu. Oppure la decisa incursione repubblicana nell’elettorato ispanico e, meno decisa, in quello afroamericano. Segnali questi ultimi di particolare allarme per i democratici.

(Forse questi segnali di conversione di pezzi di gruppi etnici non eurodiscendenti sono meno allarmanti per la società americana nel suo complesso, se scompaginano la netta frattura di razza che ha caratterizzato l’ascesa repubblicana più schiettamente MAGA, lily-white, bianca come il giglio.)

Il punto vero, come sempre, è una scommessa, in questo caso una scommessa sull’interrogativo iniziale: se l’amministrazione repubblicana sarà capace di assecondare e consolidare e sviluppare queste novità con politiche, manovre, tattiche e strategie adeguate. Trump ha tutti gli strumenti che aveva a disposizione Biden, anzi ne ha uno in più, e cruciale. Ha l’appoggio di una Corte suprema che meglio di così, per lui, non potrebbe esserci. 

(Potrebbe anche esserci, per lui, una Corte suprema meglio di così, ma lasciamo stare per il momento…).

Per il momento, l’impressione è che, mentre si delinea il possibile tramonto del ciclo secolare dell’American Century, oppure soltanto il possibile spampanamento del ciclo semisecolare neoliberale, i giochi sul che fare davvero siano ancora aperti. 

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