
Dopo quasi due secoli di onorato servizio, dacché è stato introdotto con una legge del Congresso nel 1845, Election Day non esiste più, si è dissolto nell’aria. Non esiste più come l’unico giorno in cui gli americani, tutti insieme, scelgono il loro presidente. Non esiste più come l’America’s choosing day celebrato a fine Ottocento da Walt Whitman, “il giorno in cui l’America fa la sua scelta / il senso profondo non nell’eletto – l’atto in se stesso ciò che conta, la scelta quadriennale”. Ah, l’ottimismo whitmaniano! Poteva prevedere che a volte (e non è buona cosa) il suo senso profondo stia anche nell’eletto?
Comunque, ai tempi d’oggi Election Day è diventato una deadline.
Con l’adozione legale e il successo popolare del voto in assenza (absentee voting), del voto anticipato (early voting) e del voto per posta (mail-in voting), nella stragrande maggioranza degli stati il giorno delle elezioni è solo una data di scadenza. Entro tale data, quest’anno martedì 5 novembre, va consegnata la scheda se si vuole che la scheda conti e sia contata, sia scrutinata insieme alle altre alla chiusura dei seggi. Ma si può consegnarla anche prima, una settimana o due prima, anche un mese prima, dipende dagli stati, e si può farlo da lontano.
Il voto per posta, in particolare, è molto trendy. E’ una possibilità quasi universale, consentito da un numero sempre maggiore di stati, spesso semplicemente allargando le maglie del voto in assenza, non chiedendo giustificazioni per il suo esercizio (“no-excuse” permanent absentee voting). E va detto che dove una giustificazione, una scusa è richiesta, be’, non è così difficile trovarsela. Poi ci sono gli stati puri e duri, dove si vota esclusivamente per posta: l’Oregon e lo stato di Washington nel Northwest, Colorado, Utah e Hawaii.
Sono molti i cittadini americani che usano queste opzioni.
In effetti le stanno già usando, hanno già votato in 64 milioni (and counting), più di un terzo degli elettori del 2020.
Nella scorsa tornata elettorale presidenziale, nel 2020 appunto, i voti anticipati erano stati più di 100 milioni, il 70% di tutti quelli espressi. Probabilmente è stato un dato eccezionale, perché quello era l’anno della pandemia e gli stati avevano esteso le facilitazioni per il voto in assenza, da casa, per evitare affollamenti e contagi ai seggi. Ma già nel 2016 la percentuale era stata del 40%, in crescita continua soprattutto dopo il giro di secolo. Era del 30% nel 2008, del 15% nel 2000, appena del 7% nel 1992.
E nelle elezioni di medio termine del 2022 la percentale è rimasta sopra al 50%.
Quest’anno sembra che ci sia particolare entusiasmo in alcuni degli stati in bilico, quei sette swing states che potrebbero decidere la corsa, il vincitore, il prossimo presidente degli Stati Uniti. In Georgia e in North Carolina ha già votato quasi il 70% dei votanti del 2020, in Arizona e Nevada più del 60%. Va detto che tutti gli stati del Sud e del Sudovest sono in genere i più attivi nell’esercizio del voto anticipato. Ma ora anche in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania hanno già votato in tanti, in Michigan il 40% dei votanti di quattro anni fa.
Si vota dunque mentre la campagna elettorale è in corso. I cittadini preparano le loro schede quando vogliono, dove vogliono, da soli o in compagnia di chi vogliono, famigliari, amici, amanti, compagni di lavoro, compagni di fede politica o religiosa. E poi depositano le schede votate presso centri di raccolta negli uffici municipali o di contea, presso seggi speciali aperti solo in alcuni giorni, talvolta in buche delle lettere dedicate che per l’occasione sostituiscono la ballot box o ne prendono le sembianze.
Tutto molto pratico, forse troppo? Poco cerimoniale, poco evocativo, poco poetico?
Con queste azioni diluite nel tempo, in effetti, si dissolve la sacralità del giorno in cui i cittadini attivi si riuniscono per formare il corpo politico della repubblica e mettere in scena l’esercizio della sovranità. Con queste azioni che avvengono negli spazi privati di ciascuno, famigliari o quant’altro, perde importanza anche il seggio elettorale, il “tempio” della democrazia, lo spazio pubblico designato dall’autorità dove i cittadini esercitano il loro diritto in segreto, protetti dallo stato. Lontano da occhi o pressioni indiscrete.
In entrambi i casi, dicono alcuni, si perde il senso delle elezioni come un’impresa civica collettiva. Un’impresa vissuta e condivisa in contatto fisico diretto, gomito a gomito, con estranei di classi sociali, discendenze etniche e opinioni politiche diverse, in fila e in attesa comune di fronte a un seggio. Un’impresa certificata, alla fine della fila, da funzionari pubblici in carne e ossa. D’altra parte, dicono altri con un sospiro di sollievo, così si elimina anche la perdita di tempo in noiose lunghe attese accanto a perfetti sconosciuti che tali sono destinati a restare.
Infine ci sono le implicazioni tattiche che tutto ciò può avere per elettori, partiti e candidati. Se nelle settimane finali di campagna elettorale decine di milioni di cittadini hanno già votato, contano sempre di meno le iniziative o gli eventi dell’ultimo momento, persino le October surprises o le gaffes clamorose che potrebbero alterare le percezioni politiche degli elettori e quindi le loro espressioni di voto. Le espressioni di voto, com’è ovvio, non di tutti ma solo di quelli che non hanno ancora votato.
Può succedere insomma che la giuria emetta il verdetto prima che il processo si sia concluso.
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