Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Il giorno dopo le elezioni americane, si saprà chi ha vinto?

I sondaggi danno i due candidati presidenziali, Kamala Harris e Donald Trump, alla pari. Poche migliaia di voti in uno dei sette swing states possono fare la differenza, decisiva ma non rilevabile, non quantificabile dagli opinion polls. In molti stati già si vota, con il voto anticipato, con il voto per posta. I democratici sembrano più nervosi dei repubblicani, ma sono i più nervosi sempre, per carattere. Nel complesso, dicono molti osservatori, l’unica cosa certa è che si voterà, o meglio si finirà di votare martedì 5 novembre, Election Day. 

Un’altra cosa certa, suggeriscono alcuni, è che il 6 novembre non si saprà chi ha vinto.

Far sapere chi sia il prossimo presidente (l’eletto, anzi l’Eletto) la notte stessa delle elezioni, Election Night, è sembrata a lungo una caratteristica del sistema, una garanzia del suo funzionamento veloce e quindi efficiente, trasparente, sicuro, pacifico, democratico. E’ sembrato a lungo un diritto acquisito degli elettori, dei cittadini americani, del pubblico nazionale e anche del pubblico internazionale, dacché gli Stati Uniti sono la gran potenza che sono. In realtà questa caratteristica e tanto più questo diritto non esistono in una Costituzione che, essendo settecentesca, non ha così fretta. Prescrive procedure farraginose e lente, adatte a una società rurale con grandi distanze, con carrozze e cavalli e pessime strade, senza i pressanti impegni della modernità. E funziona sui tempi lunghi appena aggiornati, cioè accorciati, quasi un secolo fa con un emendamento.

(Dagli anni 1930s il presidente entra in carica il 20 gennaio e non, come prima, il 4 marzo, con l’arrivo della primavera, della buona stagione.)

Com’è noto, il presidente non è eletto con voto popolare nazionale bensì in modo indiretto, stato per stato, ciscuno stato eleggendo i suoi Grandi elettori. Ogni stato fa per sé, ha il suo apparato elettorale, le sue forme di controllo, conduce i conteggi dei voti dopo la chiusura dei seggi. Con gli enormi volumi di voti per posta che sono diventati comuni negli ultimi decenni, spesso da spogliare per legge dopo il conteggio dei voti in presenza, Election Night può durare giorni. Per i risultati certi bisogna attendere più di un mese, quest’anno la scadenza è il 17 dicembre. Per i risultati ufficiali, certificati a livello federale dalle camere riunite del Congresso, bisogna attendere fino al 6 gennaio. Ebbene sì, proprio il giorno in cui nel 2021 ci fu l’assalto dei trumpiani al Campidoglio per impedire proprio quella certificazione.

Questi sono i tempi costituzionali, queste le procedure richieste con tutti i timbri del caso.

La velocità delle operazioni a cui gli americani e il mondo sono abituati è frutto di finzioni. O meglio, di un paio di convenzioni sociali e culturali che sono fondate sulla fiducia e che in genere funzionano, hanno funzionato. 

Per alcuni versi, c’è la riconosciuta autorevolezza dei mass media, in particolare, nell’ultimo mezzo secolo, della televisione. Sono le grandi testate televisive a raccogliere i risultati elettorali nei singoli stati, a estrapolare dai primi dati parziali la tendenza del voto in ognuno di essi, e infine, quando i dati sono sufficientemente significativi, a “chiamare” il vincitore, a proclamarlo. A poche ore dalla chiusura dei seggi. Sulla base non di risultati ufficiali completi ma delle proiezioni statistiche di una agenzia privata, commerciale. Per altri versi, ciò induce il candidato indicato come perdente da queste proiezioni statistiche private a riconoscere la vittoria dell’avversario e a fare il discorso di concessione. E’ il momento in cui il politician sconfitto assume il manto dello statista gentiluomo, mette country over party, riconosce la santità del sistema, si inchina alle regole del gioco, alla voce del popolo. Così finisce la campagna elettorale. 

Ecco, ci sono segnali che queste cose stiano cambiando, che venga meno il patto di fiducia su cui vivono, travolte dalla polarizzazione politica che spacca in due il paese. 

L’autorevolezza e quindi la credibilità delle televisioni sembrano avere seri problemi, minate dalla partigineria. Celebri tv via cavo come la CNN o Fox News sono viste come voci schierate a prescindere, rispettivamente a favore dei democratici progressisti e dei repubblicani molto conservatori. Come può il pubblico generale e tanto più quello di parte avversa prendere sul serio i loro informali calling of the winner, soprattutto quando lo scarto è di pochi voti e c’è in gioco, come si dice fra i partisans di qua e di là, il destino stesso della democrazia? Nel 2020 Fox News fu duramente rimproverata dai repubblicani per aver fatto alcune scelte per loro discutibili. Fra l’altro chiamò lo stato dell’Arizona, e quindi l’elezione generale, per il candidato democratico Joe Biden. E incorse nella rabbia di Trump. 

Che cosa succederà quest’anno? 

D’altra parte, fra i candidati non ci sono più i gentlemen (per le ladies si vedrà) di una volta. O chissà? In effetti ci vuole fantasia per ricordare che nel 2000 il candidato democratico nonché vice presidente in carica Al Gore, piuttosto che trascinare il paese in una lunga crisi costituzionale, concesse la vittoria al repubblicano George W. Bush pur essendo lui stesso il probabile vincitore. Lo stato in ballo allora era la Florida. “Il popolo ha parlato, ma ci vorrà un po’ per sapere che cosa ha detto”, aveva commentato il presidente uscente Bill Clinton la notte delle elezioni. Per scoprirlo Gore andò avanti per avvocati e tribunali per più di un mese, ma poi accettò la decisione a lui contraria di una Corte suprema a maggioranza conservatrice, e chiuse la faccenda. Partecipò anche alla cerimonia di insediamento di W. Bush, accompagnando con grazia il suo successore alla vice presidenza, Dick Cheney.

Non è quello che ha fatto Donald Trump quattro anni fa.

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