Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Riformare la Corte suprema?

Di nuovo si parla di riformare la Corte suprema degli Stati Uniti? Ha provato almeno a parlarne l’altro giorno il presidente Joe Biden. 

In un discorso pieno di eco storiche e politiche. Era il suo primo discorso dopo il ritiro della ri-candidatura a presidente, per dire che, comunque, fino al gennaio 2025 il presidente è ancora lui. Lo ha fatto a Austin, Texas, nella Lyndon B. Johnson Presidential Library, in casa dell’unico presidente che abbia compiuto un gesto simile al suo. Celebrava il sessantesimo anniversario della firma del Civil Rights Act, e quindi sessant’anni di glorie progressiste del suo partito. Era un contributo alla campagna elettorale di Kamala Harris contro l'”estremismo” di Donald Trump, fra l’altro evocando lo spettro del Project 2025, il piano di riorganizzazione del governo federale della destrissima Heritage Foundation che lo stesso Trump ha definito, be’ sì, “estremo”. Era infine un attacco alla Corte suprema, per gli scandali personali di un paio dei suoi membri più conservatori, e per la serie di sentenze ultra-conservatrici, l’ultima delle quali ha riconosciuto ampia immunità giudiziaria alle azioni del presidente in carica. 

In questo contesto di pericolo per la democrazia, ha detto Biden, conviene considerare alcune misure di rattoppo. Misure semplici nella loro concezione ma, in effetti, difficili se non impossibili da realizzare. Ha proposto dunque un emendamento alla costituzione che scolpisca nel marmo del testo costituzionale che il presidente non è al di sopra della legge  (impresa assai complicata, emendare la costituzione). Si è detto favorevole a un codice di condotta etico anche per i giudici supremi (impresa assai complicata, entrare nel merito dell’auto-governo della Corte). E infine ha annunciato che è venuto il momento di cambiare le regole stesse di formazione della Corte, di eliminare la nomina a vita dei suoi membri (impresa complicatissima, e dal percorso da definire, se con un emendando costituzionale oppure no). In tutti i casi, ci sarebbe bisogno di un largo consenso in Congresso e, per le riforme costituzionali, anche negli Stati.

Consenso che per il momento certo non c’è. Già l’attuale speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson, ha definito le idee di Biden “dead on arrival”, decedute durante il trasporto, e anche la prossima legislatura, per quanto possa essere diversa, non sarà tanto diversa. Inoltre è facile che presso l’opinione pubblica generale esse possano essere percepite come vendette di fazione, con i democratici che vogliono cambiare una sacra istituzione solo perché non gli piace quello che fa. Insomma, roba da campagna elettorale, chiacchiere senza futuro, vuote minacce? E’ possibile che sia così, anche se si tratta di minacce che hanno buone ragioni teoriche, presso gli addetti ai lavori, e profonde radici storiche.

La Corte suprema è l’organo più elitario, più lontano dal controllo di “we the people”, fra quelli previsti dalla costituzione. Da subito ha suscitato lo sdegno dei democratici più radicali. Un padre fondatore (ma non costituente) come Thomas Jefferson ne aveva una pessima opinione. È un organo oligarchico e irresponsabile, diceva, la sua indipendenza è un errore, la nomina a vita dei suoi membri è una aberrazione, la sua pretesa di interpretare la legge è una forma perniciosa, subdola, dispotica di policymaking. Nelle sue mani, sosteneva, la Costituzione diventa una “cosa di cera” modellabile a piacimento. Un simile atteggiamento critico è rimasto vivo nella cultura politica del paese, anche quando nel corso dell’Ottocento la Corte ha acquisito quel ruolo oracolare che prima non aveva, tanto da essere paragonata, con un linguaggio che oggi sarebbe imbarazzante, a una “sorta di Mecca” verso cui guardano i fedeli della sacra scienza, il diritto. È sempre stata anche un organo politico, nei fatti e certo agli occhi degli osservatori più cinici. Perché, come usava dire un cinico scrittore satirico, è noto che la Corte segue la costituzione ma anche i risultati elettorali.

In effetti dal 1800 in poi ci sono stati centinaia di tentativi di toccarne il ruolo o l’organizzazione. I tentativi più pensosi e pensati sono quelli a cui si è riferito Biden, quelli che affrontano il nodo protetto in costituzione della nomina a vita dei giudici. Propongono invece dei term limits: che ciascuno giudice abbia un unico lungo mandato di 18 anni, e poi fuori, senza aspettare che morte ci separi. Alla fine del Settecento la vita delle persone (persino dei magistrati) era più breve; oggi, si dice, il ricambio per cause naturali è più lento, la Corte rischia di diventare un organo ossificato, i cui membri vivono per decenni una vita separata. Fissare dei limiti di mandato aumenta il ricambio e depotenzia il significato politico di ogni singola nomina, che non sarebbe come oggi per la semieternità. Se poi i mandati fossero scaglionati nel tempo, come quelli dei senatori, si libererebbe un seggio ogni due anni, e tutti i presidenti avrebbero la chance di riempirne due. Fra l’altro, come ha commentato tempo fa l’allora giudice Stephen Breyer, “ciò semplificherebbe un sacco la vita” sua e dei colleghi, sollevandoli da valutazioni e scelte esistenziali assai delicate sul momento in cui ritirarsi. 

Fra gli esperti questa riforma sembra godere di molti consensi. Secondo alcuni, con qualche trucco potrebbe persino evitare le strettoie delle procedure di revisione costituzionale. In fin dei conti, conservare le cariche “during good behaviour”, finché manterranno buona condotta, secondo l’Articolo III Sezione 1 della costituzione è un privilegio non solo degli augusti giudici supremi ma di tutti i giudici federali. Per cui potrebbe bastare che i membri scaduti, cacciati dal paradiso della Corte suprema, restassero a servire nei ruoli meno augusti dei tribunali subapicali, anch’essi a vita. Chissà.

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