
Per motivi che dovrebbero essere intuitivi, in movimenti politici che aspirano a estendersi, a coinvolgere quante più persone possibile, a diventare di massa, non porta bene agitare bandiere straniere. Possono avere un effetto shock, scandaloso, alla prima apparizione, ma poi isolano. Negli Stati Uniti voglio dire, non saprei altrove. Magari non è intuitivo affatto, magari lo è solo per me, magari mi sbaglio proprio, o magari il mondo è cambiato – ma questa è un po’ la mia (limitata) esperienza americana.
Durante le proteste contro la guerra in Vietnam si videro delle bandiere Vietcong, cioè del nemico celebrato come eroe. Un caso molto visibile era accaduto nell’aprile del 1971 a Washington, quando la bandiera a bande orizzontali rosse e blu, con al centro la stella gialla a cinque punte, comparve fotografatissima su una statua davanti al Campidoglio, a Washington, nel bel mezzo di un rally anti-guerra (c’era anche un ritratto di Mao, vedi qui sopra). Ne incrociai qualcuna anch’io, nell’ultimo inverno di guerra, nel 1972-1973, oggetto di accesi dibattiti fra i dimostranti. Molti ritenevano che fossero un segno di minoritarismo politico, di stupido narcisismo identitario, un ostacolo all’allargamento del consenso popolare alla causa. Era noto che per gli americani più patriottici, compresi molti della classe operaia, i simboli Vietcong erano la prova del carattere anti-americano e per giunta fighetto (woke, si direbbe oggi) del movimento.
Chissà se è stato davvero così.
D’altra parte era anche difficile tenerle fuori, quelle bandiere, se a qualcuno veniva l’uzzolo di usarle. Com’è possibile disciplinare davvero così tante persone? Così narcisiste, appunto, per giunta.
Un articolo del New York Times del novembre 1965 racconta una origin story che, conoscendo i miei polli, trovo del tutto credibile. Nella capitale era prevista una marcia pacifista, una delle prime, che avrebbe dovuto avere un carattere pacifista e basta. Niente simboli politici, per l’amor di dio. La faccenda era ancora di tipo gruppettaro, era organizzata da un centinaio di sigle, le più importanti erano i radicali Students for a Democratic Society (SDS), i marxisti-leninisti del May 2nd Movement e i comunisti del W.E.B. DuBois Club. Militanti di ferro, che avrebbero dovuto sapere il fatto loro, tener fede alle intenzioni, tenere a freno le passioni esibizioniste. Ma i compagni essendo quello che sono, cedettero al cuore e non controllarono niente. Ci fu persino un banchetto che le bandiere Vietcong le vendeva al pubblico (10 dollari), diceva di operare per conto di un U.S. Committee to Aid the National Liberation Front of South Vietnam, i soldi sarebbero stati mandati a Hong Kong e, pensa te, in Cecoslovacchia.
Trent’anni dopo o giù di lì, all’inizio di maggio del 2006 nelle strade di Washington fui travolto da una manifestazione di messicani-americani e altri ispanici. Era May Day, il primo maggio, o El Cinco de Mayo, la festa dell’orgoglio Mexican-American? Non ricordo. Era in corso uno sciopero dimostrativo, “A day without immigrants”, per rivendicare i diritti dei migranti non autorizzati, quelli non in regola insomma. Con un sacco di bandiere messicane e di altri paesi latino-americani (vedi l’immagine in calce). Secondo quello che poi lessi sui giornali, molti organizzatori delle manifestazioni erano inviperiti allo spettacolo, che con ogni evidenza non avevano anticipato. Pensavano che tutte quelle bandiere straniere fossero politicamente controproducenti, che invece fosse opportuno portare la bandiera americana. Cercavano di convincere e, per quello che vidi dopo, con qualche successo. Nelle manifestazioni successive le bandiere a stelle e strisce divennero prevalenti. Aveva senso chiedere diritti negli Stati Uniti celebrando la propria identità altra, agitando le bandiere dei paesi da cui si era venuti via, magari scappati per sfuggire a povertà, violenze, mancanza di diritti?
Chissà chi aveva davvero ragione. E questa, mi sa, è una domanda buona non solo in un paese con il culto della bandiera come gli Stati Uniti, ma in qualsiasi altro paese.
Studiando, ormai tanti anni fa, la storia della bandiera nazionale americana, i suoi significati nel tempo, i suoi usi convenzionali e meno convenzionali, mi ero fatto una convinzione. Non scientifica, eh, ma per me suggestiva. E cioè che qualunque movimento sociale di protesta che, allo stato nascente, ignorasse la bandiera a stelle e strisce, o la maltrattasse, o tanto più adottasse una bandiera diversa, annunciava fin da piccolo di aspirare al vicolo cieco, al minoritarismo, alla marginalità. Non è una questione di diritti formali ma di fattibilità culturale e sociale. Negli Stati Uniti persino bruciare la bandiera nazionale è un diritto protetto dalla Costituzione, una forma di libertà di espressione, lo ha detto una sentenza della Corte suprema nel 1989. Ma è ovvio che si tratta di un patto garantista liberale d’élite concluso fra un pugno di attivisti fighetti (oggi si direbbe woke), cioè fra cinque dei nove supremi giudici di allora e i militanti marxisti-leninisti che, liberali loro malgrado, provocarono il caso.
Un patto abbastanza estraneo ai sentimenti dell’opinione pubblica più generale.
Insomma, per ciò che mi riguarda, oggi come oggi, vedo in giro le bandiere palestinesi (talvolta accompagnate da teste avvolte nella kefiah), e anche qualcuna con la stella di David, e per antica abitudine continuo a pensare: non è buono, se continua così non andranno lontano. Forse la mia abitudine è davvero antica, passé, e il caso è diverso. Fuori dalla bolla dei campus, sarà interessante vedere quale uso di quelle bandiere si faccia in comunità a forte presenza Palestinian-American tipo Dearborn, in Michigan, dove lo stesso sindaco è arabo musulmano di discendenza libanese. I residenti locali avranno gli stessi istinti degli studenti radicali delle università, e tireranno fuori simboli nazionali alieni, oppure gli stessi dilemmi delle comunità ispaniche di ieri ed esibiranno i simboli della loro nuova cittadinanza americana?
Avremo modo di riparlarne nei lunghi inverni sotto la prossima amministrazione Trump.

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