
Nelle intenzioni degli organizzatori, e cioè il National Air and Space Museum della venerabile Smithsonian Institution di Washington, la mostra sulla bomba atomica sul Giappone, prevista per l’estate 1995 in occasione del cinquantenario di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto 1945), aveva un compito ambizioso.
The Last Act: The Atomic Bomb and the End of World War II voleva integrare analisi storica e commemorazione. Voleva quindi combinare, da una parte, la prospettiva fredda, critica, lunga e a posteriori, quella degli storici di professione, appunto; e dall’altra la memoria una volta calda e immediata, ora ossificata nel ricordo dei partecipanti, dei soldati, dei combattenti. Il cuore della messa in scena museale sarebbe stato la fusoliera restaurata di Enola Gay, il bombardiere B-29 che sganciò Little Boy su Hiroshima. Il contesto doveva includere una serie di documenti, testimonianze, interviste, che discutessero da vari punti di vista (come dire, dall’alto e dal basso) le domande più spinose sulle decisioni, allora, del governo degli Stati Uniti.
Fu un disastro.
L’impresa finì in rissa, in uno scontro simbolico fra élite e popolo.
Il lavori preparatori, per tutto il 1994, furono attraversati da accesi conflitti fra gli storici incaricati di preparare il piano dell’opera e le associazioni memoriali coinvolte, in particolare gli ex combattenti dell’American Legion. A questi ultimi le domande degli storici sembravano ciniche, ingiuste, offensive. Sembravano parte del tentativo di certi intellettuali di imporre una versione della storia nazionale aderente a una ortodossia di sinistra, insomma politicamente corretta (il termine era assai popolare fra i conservatori). Una versione che non potevano che respingere in nome delle loro antiche esperienze dirette e di un elementare patriottismo (in nome del patriotticamente corretto, avrebbe detto lo scrittore Robert Hughes).
C’era bisogno di chiedersi sul serio, come volevano fare gli storici, se si trattasse di una decisione per abbreviare la guerra, oppure piuttosto, o anche, di un’affermazione di supremazia e di potenza che guardava al futuro? C’era davvero bisogno di insistere, anche con fotografie orripilanti, sugli effetti delle bombe sulle popolazioni civili, quasi a presentare i giapponesi come vittime e gli americani come spietati vendicatori di Pearl Harbor? E perché chiedersi se, nel caso, la bomba sarebbe stata sganciata davvero sulla Germania (implicando che, razzisticamente, non sarebbe mai successo nel cuore bianco dell’Europa?).
Tutto ciò fu percepito come un insulto ai soldati che, all’inizio dell’estate del 1945, stavano preparandosi, a decine e centinaia di migliaia, a invadere l’arcipelago del Giappone nella più massiccia operazione anfibia della storia, mentre i giapponesi rifiutavano di arrendersi, preparavano le difese, la resistenza suicida, i kamikaze. Le battaglie nelle isole nel Pacifico erano state una successione di sbarchi sanguinosi, lotte feroci nella giungla, perdite altissime – come, da ultimo, a Iwo Jima e Okinawa. Si stava preparando una gigantesca Okinawa? A quale prezzo? Al prezzo di chi?
Quanti degli attuali ex combattenti ci avrebbero rimesso la pelle?
Naturalmente anche queste domande erano ben presenti nella discussione, ma ai veterani di guerra non sembravano essere poste in maniera così centrale, e forse esclusiva, come avrebbero dovuto essere. In alcuni casi ci furono risvolti surreali. Un momento di alta tensione fu raggiunto quando uno storico propose di abbassare il numero di caduti stimati, in caso di un’invasione, da 230.000 a 63.000 – insomma, si poteva fare, no? I veterani erano furiosi.
Intervenne anche la politica politicante. In Senato si affacciò una risoluzione che condannava i propositi della mostra come “revisionisti”. All’inizio del 1995 il nuovo speaker della Camera, il repubblicano conservatore Newt Gingrich disse che gli americani erano ormai “stufi di sentirsi dire da una qualche élite culturale che dovrebbero vergognarsi del loro paese”.
Da allora, comunque, il gioco era finito.
Di fronte alla impossibilità di raggiungere un accordo, con gli storici che accettarono modiche e compromessi ma alla fine rifiutarono di cedere a ciò che chiamarono “pulizia storica”, nel gennaio 1995 la Smithsonian Institution annullò l’operazione, almeno nei termini in cui era stata inizialmente concepita. Una mostra si aprì in effetti ad agosto, ma conteneva solo Enola Gay – senza apparati critici, senza commenti.
La fusoliera del B-29 stava lì, da sola, muta.
Un fallimento dunque? Un fallimento di tutti sul quale gli storici dovevano riflettere in modo particolare, scrisse l’allora direttore del Journal of American History, David Thelen. Perché era paradossale che a scontrarsi con gli ex combattenti fosse proprio quella nuova storiografia che tanto voleva occuparsi di memoria storica e dare spazio alle esperienze dei partecipanti non d’élite. E che quindi aspirava a conciliare, in una seria conversazione sul presente e sul passato, analisi storica e vissuto-memoria dei protagonisti, dei cittadini, di tutti i cittadini. Era bene trovare una via d’uscita da questa impasse, scrisse Thelen, perché l’alternativa era quella di isolarsi, di “ritirarci nei porti sicuri della professione dove parliamo solo con noi stessi”.
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POST SCRIPTUM. Visto il fallimento della mostra sulla Bomba, qualcuno suggerì: perché non provare a essere creativi?
Perché non immaginare delle strategie di presentazione museale che riconoscano francamente le differenze di prospettive che esistono nel paese e, attenzione, anche fra gli storici? Perché su temi scottanti, controversi, e tanti ne esistono in una società divisa dalle culture wars, non pensare a percorsi interpretativi multipli, ciascuno affidato a gruppi distinti di curatori, che mantengano ciascuno la propria integrità senza compromessi, senza cercare un impossibile consenso? E poi lasciar decidere al pubblico quale sia il percorso più persuasivo o il più credibile.
Dopo tutto, un tentativo del genere era stato appena fatto.
La mostra The Frontier in American Culture, aperta alla Newberry Library di Chicago nel 1994, prevedeva due percorsi spaziali distinti, corrispondenti a due tradizioni diverse di interpretazione della storia del West. Il primo seguiva l’interpretazione del celebre saggio di Frederick J. Turner, The Frontier in American History, letto a Chicago cent’anni prima, il 12 luglio 1893. Qui la frontiera era vista come un movimento di espansione pacifica della civiltà in un continente vuoto, di terre libere; il pioniere era il farmer, e gli strumenti di civilizzazione erano l’ascia e l’aratro. L’altro percorso seguiva il Wild West Show di William “Buffalo Bill” Cody che, per una felice coincidenza, si era esibito in città nello stesso pomeriggio della conferenza di Turner, a poche strade di distanza. E qui la frontiera era un campo di battaglia con le popolazioni native; qui il pioniere era lo scout e gli strumenti di civilizzazione erano il fucile e le pallottole.
Fate la vostra scelta.
(Naturalmente è paradossale constatare come il percorso più pop, quello più spettacolare, ispirato dalle scorribande fra “cowboy e indiani” raccontate dal Wild West Show così come dalla pulp fiction e poi dal cinema western, fosse più realistico, più aderente alla realtà storica, e anche alle nuove interpretazioni storiografiche, alla New Western History, di quanto lo fosse tanta storiografia accademica ispirata, per più di mezzo secolo, da Turner stesso… Nel suo cinismo imprenditoriale, nel suo fiuto da impresario per la violenza bang bang, Buffalo Bill era il più politically correct di tutti…)
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David Thelen, History After the Enola Gay Controversy, in “Journal of American History”, vol. 82 (December 1995), p. 1035.
Lo script finale per la mostra è The Last Act: The Atomic Bomb and the End of World War II, The Smithsonian Institution, Washington, D.C., January 1995
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