Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Politicamente corretto? Riflessioni critiche di tanto tempo fa (Stuart Hall 1994)

Queste sono alcune pagine da me tradotte, con vari tagli non segnalati, di un testo del 1994 di Stuart Hall (1932-2014), l’attivista e studioso britannico di discendenza afrogiamaicana che è stato uno dei fondatori dei moderni studi culturali (nonché della New Left Review). Stuart Hall, Some “Politically Incorrect” Pathways Through PC, in Sarah Dunan, ed., The War of the Words. The Political Correctness Debate, Virago, London, 1994, pp. 164-184 (qui, le pp. 178-182).

La principale deduzione che ricavo dal tentativo di collocare la “correttezza politica” in una prospettiva politica e storica di lungo periodo, è che si tratta di una tattica avanguardistica perseguita come se potesse produrre risultati politici strategici. Corretta nel suo tentativo di fare i conti con le più ampie questioni culturali e sociali, non ha alcuna reale comprensione della centralità di una concezione “educativa” della politica, e della necessità di conquistare il consenso per condurre in maniera efficace le “guerre culturali”. Ha radicalizzato l’agenda politica, ma è intrappolata in una concezione vecchia e screditata di ciò che è “politico”.

I sostenitori del politicamente corretto hanno ragione a portare in primo piano le questioni neglette del genere, della sessualità, dell’etnìa, della lingua, della struttura della conoscenza, del carattere etnocentrico del canone, e così via. Hanno anche ragione a cercare di farne oggetti di lotta politica. Hanno certamente ragione a dire che la “politica” ha tradizionalmente trascurato queste questioni non per qualche scelta consapevole, razionale, o per qualche complotto, ma perché l’intera cultura tende a rendere questi antagonismi sociali politicamente invisibili. Stando così le cose, bisognerà – come i sostenitori del politicamente corretto giustamente dicono – darsi da fare un sacco, abbattere tanti sacri tabù, rompere tanti silenzi omertosi, solo per rendere queste issues visibili – lasciamo stare per pensare a strategie istituzionali che possano affrontarle con efficacia. Di più, se si fanno cambiamenti istituzionali e di policy che non penetrano fino al livello delle pratiche personali nella vita quotidiana, questi cambiamenti non serviranno a niente.

D’altra parte, i sostenitori del politicamente corretto dovrebbero sapere che mettere in discussione i presupposti implici nell’uso ordinario della lingua è una cosa, la vigilanza poliziesca della lingua è un’altra. Cercare di spingere collettivamente le persone a cambiare i loro comportamenti verso le minoranze è una cosa, dire loro che cosa possono e non possono fare è tutta un’altra cosa. I sostenitori del politicamente corretto sanno, o dovrebbero sapere che se il nostro modo di fare politica non riesce a “conquistare identificazione”, non può neanche produrre i nuovi soggetti politici che devono convalidare quella pratica, e poco importa che l’analisi sia “obiettivamente” corretta. Quelle che noi chiamiamo “identità” non sono create fuori dalla cultura e poi mobilitate dalla politica. Al contrario, la politica consiste fondamentalmente del processo di plasmare individui (le cui identità sono multiple e frantumate) in “nuovi soggetti politici” (per esempio far sì che persone con una certa varietà di colori della pelle si sentano e agiscano politicamente come “neri”; far sì che molte donne diverse fra loro si pensino come “femministe”) e conquistare la loro identificazione (che non sarà mai totale o omogenea) con certe posizioni politiche.

Il problema con i sostenitori del politicamente corretto non sta nella loro agenda ma nella loro incapacità di afferrare le implicazioni delle loro stesse posizioni. Chiunque capisca l’importanza della lingua sa che il significato non può essere fissato una volta per tutte, perché la lingua è per sua natura multiforme e il significato è sempre in cambiamento. E’ la destra che desidera intervenire ideologicamente nella infinita multiforme varietà della lingua per cercare di congelarne il rapporto con il mondo e far sì che possa significare una cosa sola. L’idea che con qualche legge la sinistra possa o debba intervenire a fissare la lingua giusta è semplicemente giocare allo stesso gioco della destra, solo alla rovescia. E tuttavia una delle principali lezioni che abbiamo imparato dopo il linguistic turn in filosofia e negli studi culturali è che non è possibile sfuggire agli effetti di un modello o di una pratica solo mettendoli a testa in giù. Credere che tutti i neri siano buoni e intelligenti può essere un sollievo dopo secoli in cui sono stati ritenuti cattivi, rozzi e ottusi; ma è un’idea ancora basata su presupposti razzisti. Bisogna smetterla di cercare di impostare politiche anti-razziste su fondamenta biologiche o genetiche. La vera rottura può venire non dall’invertire il modello ma dal liberarsi delle sue costrizioni, dal cambiare il frame, quadro concettuale.

I sostenitori del politicamente corretto non hanno cambiato la concezione di come la cultura funziona. Non è solo una questione di lingua. La loro intera strategia si fonda su una concezione della politica come smascheramento di idee false da sostituirsi con idee vere. Si presenta come “politica come verità” – la sostituzione della falsa coscienza razzista o sessista o omofobica con una “vera coscienza”. Rifiutano di prendere in considerazione la profonda osservazione (per esempio di Michel Foucault e di altri) che la “verità” della conoscenza è sempre contestuale, sempre costruita all’interno di un discorso, sempre connessa a relazioni di potere che la rendono vera – in breve, una “politica della verità”. L’ipotesi che si debba lottare sulla lingua perché il discorso ha effetti su come percepiamo il mondo e su come agiamo in esso, che è giusta, è negata dal tentativo di aggirare il processo di cambiamento introducendo per legge qualche Verità Assoluta. Per di più, ciò che viene legiferato è un’altra unica verità omogenea – la nostra verità che sostituisce la loro – laddove il compito veramente difficile è quello di restare fedeli alla prospettiva di cambiare il mondo, di renderlo un posto migliore, e nel mentre di accettarne e negoziarne le differenze. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è il modello di una autorità che sostituisca un set di identità o verità con un altro set “più corretto”. La critica dell’autorità culturale, dell’essenzialismo e delle concezioni omogenee dell’identità culturale, ha reso nulla questa concezione essenzialista della politica.

La correttezza politica è dunque un paradosso. In un senso, sembra appartenere a un nuovo momento politico, e condividerne alcune caratteristiche. Sembra persino, a volte, incarnare alcune delle sue nuove concezioni. Allo stesso tempo, gran parte di ciò che in effetti passa per “correttezza politica” è, in pratica, una specie di deformazione – una caricatura – di una nuova forma di politica. E’ stata prodotta da una nuova congiuntura politica. Ma non sembra capire le forze e le idee che l’hanno prodotta. Al contrario, cerca di condurre nuove lotte con armi antiche, decrepite.

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