Dalle pagine iniziali di Lea Ypi, Libera. Diventare grandi alla fine della storia, traduzione di Elena Cantoni, Feltrinelli, 2022, pp. 13, 15-16.
Non mi ero mai chiesta cosa significasse la libertà, fino al giorno in cui abbracciai Stalin. Da vicino era molto più alto di quanto credessi. La nostra maestra, Nora, ci aveva spiegato che erano gli imperialisti e i revisionisti a insistere tanto sulla sua statura. Luigi XIV, per esempio, era molto più basso di Stalin, ma guarda caso, parlando di lui, nessuno accennava mai alla questione. Comunque, aggiungeva in tono severo, pensare alle apparenze invece che alla sostanza era un tipico errore imperialista. Stalin era un gigante, e le sue azioni contavano infinitamente di più del suo aspetto fisico.
A renderlo davvero speciale, proseguiva, era il fatto che sorrideva con gli occhi. Sorrideva con gli occhi, capite? Lo faceva perché i simpatici baffoni che portava gli coprivano del tutto le labbra, perciò guardandogli solo la bocca era impossibile capire se stesse sorridendo o meno. Ma bastava scorgere i suoi occhi castani, acuti e penetranti, e tutto diventava chiaro. […]
Forse è vero che Stalin amava i bambini. Ed è possibile che i bambini amassero lui. Quel che è certo, di una certezza assoluta, è che io non l’avevo mai amato quanto in quell’umido pomeriggio di dicembre [1990] in cui mi precipitai dal porto al giardinetto accanto al Palazzo della Cultura, sudata, tremante e con il cuore in gola, tanto da temere di sputarlo fuori. Avevo corso come una forsennata per più di un chilometro quando infine avvistai il giardinetto. Nel momento in cui Stalin si stagliò all’orizzonte, capii che ero al sicuro. Lui era là. solenne come sempre, con il suo cappotto modesto, le semplici scarpe di bronzo e la mano destra tra i bottoni, come per sostenersi il cuore. Mi fermai, mi guardai intorno per accertarmi che nessuno mi seguisse, poi mi avvicinai. Con la guancia destra premuta sulla sua coscia e le braccia troppo corte per circondargli le ginocchia, diventai invisibile. Mi sforzai di riprendere fiato, chiudendo gli occhi e cominciando a contare. Uno. Due. Tre. Arrivata a trentasette, non sentivo più abbaiare i cani. Il rimbombo di passi sull’asfalto si era ridotto a un’eco lontana. Solo di tanto in tanto coglievo gli slogan dei manifestanti: “Libertà, democrazia, libertà, demovcrazia”.
Quando mi sentii davvero in salvo, mi staccai da lui. Sedetti a terra e lo studiai con più attenzione. Le ultime gocce di pioggia sulle scarpe si erano asciugate, e la vernice sulla giacca aveva cominciato a scrosarsi. Era proprio come l’aveva descritto la meastra: un gigante di bronzo, con mani e piedi molto più grandi del previsto. Piegai la testa all’indietro, alzando lo sguardo per vedere se i baffi gli coprivano davvero le labbra, e se sorrideva con gli occhi. Ma il sorriso non c’era. Niente occhi, niente labbra. Non c’erano più nemmeno i baffi. I vandali gli avevano rubato la testa.
Mi tappai la bocca con una mano per soffocare un grido. Com’era possibile che Stalin, il gigante di bronzo dai simpatici baffoni che vegliava sul giardinetto del Palazzo della Cultura già molto prima della mia nascita, fosse stato decapitato? Come potevano aver staccato la testa all’uomo che era lo spirito del mondo su un carro armato, come avrebbe detto Hangel se solo l’avesse incontrato? Perché? Che cosa volevano? E perché continuavano a gridare “Libertà, democrazia, libertà, democrazia”? Che significava?
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