Mi è capitato di recente, in almeno un paio di occasioni, di rivedere il film di Walter Hill del 1979, The Warriors (in italiano I guerrieri della notte, penosamente doppiato in un italiano tremendo da B-movie anni Settanta). Nove membri di una gang newyorkese, gli Warriors appunto, devono attraversare tutta la città da nord a sud, dal Bronx fino al loro quartiere di residenza, Coney Island a Brooklyn, per sfuggire alla caccia di altre gang e della polizia. Un viaggio di ritorno a casa, dunque, percorrendo di notte territori ostili, pieni di insidie, le cui nervature di comunicazione sono le linee della metropolitana, l’altra protagonista del film: la subway in cattivo stato degli anni Settanta, con pochi viaggiatori impauriti, cuore delle performance dei writers e degli artisti di strada alla Keith Haring, con i vagoni coperti di graffiti indecifrabili per molti, minacciosi per i più. La home turf, il territorio amico è sulla riva dell’oceano, e la vista del mare di “Coney” all’alba dà l’illusione di essere finalmente al sicuro.
Un viaggio di ritorno a casa in territori ostili e avventurosi? Un viaggio è un plot che funziona sempre, un lungo viaggio di ritorno a casa ha almeno due modelli, quello spampanato per mare dell’Odissea e quello lineare per terra dell’Anabasi. Qui siamo in piena Anabasi (a parte una parentesi di pericolose sirene incantatrici tipo Odissea): la storia raccontata dallo storico e soldato greco Senofonte, la storia di migliaia di mercenari greci che, quattrocento anni prima di Cristo, cercano di tornare in patria dopo un tentativo fallito di invasione della Persia, tallonati dai persiani, attaccati ai fianchi, fino alle sponde (quasi) amiche del Mar Nero, fino al celebre grido di liberazione “Thálassa! Thálassa!” cioè “Mare! Mare!” Ci siamo esplicitamente, voglio dire. Sol Yurick, l’autore del romanzo da cui è tratto il film, The Warriors appunto, del 1965, le mette proprio in esergo un paio di citazioni da Anabasi. E uno dei giovani membri della gang, in vari momenti della vicenda, è lì che ne legge una versione in forma di comic book, oggi diremmo di graphic novel.
Le citazioni in esergo sono queste (nella mia traduzione):
“Soldati, non dovete essere scoraggiati per i recenti avvenimenti. Vi assicuro che in quello che è accaduto i vantaggi sono pari agli svantaggi”.
“Amici miei, coloro che vedete sono l’ultimo ostacolo che ci impedisce di arrivare alla meta per cui abbiamo tanto lottato. Dovremmo, potendolo, mangiarceli vivi”.
– da Anabasi di Senofonte
Solomon Yurick (1925-2013) era un tipo piuttosto interessante, veniva direttamente con tutte le sue storie dal ventre proletario militante ebraico di New York. Nato a Manhattan era cresciuto nel Bronx in una famiglia operaia di immigrati ebrei russi (cioè lituani e ucraini), sindacalisti e attivisti politici, marxisti comunisti. Raccontava che il suo primo ricordo politico era l’inquietudine provata per il patto Stalin-Hitler, l’accordo Molotov-Ribbentrop firmato poco prima della scoppio della guerra nel 1939. L’adolescente Sol non approvava, litigò con il padre, diceva: “I miei feeling in quanto ebreo erano più importanti dei miei feeling in quanto comunista”. Di ritorno dalla guerra, con l’aiuto delle borse di studio per gli ex-combattenti che produssero il boom dell’istruzione superiore di massa nel lungo dopoguerra, si laureò alla New York University e poi al Brooklyn College. E andò a lavorare nell’agenzia municipale che si occupava dell’assistenza sociale alle famiglie disagiate.
Lì fu di nuovo a contatto diretto con i giovani proletari che aveva conosciuto nell’infanzia, ne osservò i comportamenti di gruppo in strada, le bande che davano loro senso di comunità e strutture di fedeltà. Scrive nell’introduzione alla riedizione 2003 di The Warriors:
“Alcuni dei figli di queste famiglie erano ciò che allora si chiamavano delinquenti giovanili. Molti di loro appartenevano alle gang di strada. Alcune di queste gang avevano centinaia di membri; erano dei veri e propri eserciti. Questo fenomeno sociale era visto, da una parte, come l’invasione dei barbari, solo che questa volta i barbari venivano da dentro e non da fuori. Dall’altra parte, c’era qualcosa di sovversivo nelle gang (specialmente nella musica che amavano… il rock). I pensatori sociali, sia accademici che popolari, non capivano perché queste formazioni sociali di poveri e marginali si materializzassero proprio nel mezzo di tempi che tutti ci dicevano essere economicamente floridi. I media gonfiavano il fenomeno a proporzioni mitiche…”
Proprio le cose di cui Yurick parla nel romanzo, insomma, scritto e pubblicato negli anni Sessanta mentre era attivo politicamente nel movimento contro la guerra in Vietnam, nelle agitazioni di strada organizzate dal SDS (Students for a Democratic Society), insieme ad alcuni compagni che poi finirono nella lotta armata clandestina dei Weather Underground. Una militanza nella sinistra radicale che continuò, insieme al lavoro di scrittore, per tutta la sua vita. (Nel 1980 fu tra coloro che protestarono contro il Dipartimento di stato che aveva negato il visto d’ingresso, per ragioni politiche, a Dario Fo e Franca Rame).
Il film non gli piacque tanto, anche se gli procurò notorietà, pubblico riconoscimento e qualche soldo. Walter Hill fece dei cambiamenti per rendere la storia meno controversa, più sentimentalizzata, stilizzata, con dialoghi un po’ improbabili, abbastanza trashy. Alcuni episodi di violenza furono tagliati (a proposito della qual violenza, non vi compaiono fucili d’assalto, e i tipi violenti sembrano ai nostri occhi mingherlini, altro che palestrati, altri tempi…). La gang protagonista, che nel romanzo è nera e latina, diventa per miracolo molto più multirazziale; succedeva nei film del periodo, per diluire il messaggio di antagonismi razzializzati. Yurick diceva di aver scritto il romanzo per contrastare le rappresentazioni glamour della vita nelle gang tipo West Side Story. Il film non andava esattamente nella direzione da lui auspicata. Fu glamourizzato dalle gang stesse che ne copiarono gli stili, ci furono incidenti per troppo entusiasmo in occasione di alcune proiezioni, il logo dei Warriors comparve nei graffiti di strada. Divenne un cult movie, anche un gioco da Playstation.
Un’ultima cosa: il viaggio dei nostri può essere inteso anche come un percorso politico, come una parabola politica. L’avventura dei Warriors comincia con un grande raduno di tutte le gang della città, la sera del Quattro luglio, nientemeno. Il leader carismatico della gang più potente invoca una tregua e lancia un manifesto (cito a memoria): “Sapete contare? Guardate ai numeri! Siamo 60.000! I poliziotti sono 20.000! Lo capite? Se non ci facciamo dividere, se manteniamo la tregua, il futuro è nostro, la città è nostra”. Ma il leader viene assassinato sul posto da una testa calda, interviene la polizia, le gang cercano capri espiatori, di nuovo son nemiche fra loro, la tregua salta, ciascuna torna al piccolo potere di casa propria, alle poche strade di cui ci si illude di essere padroni – altro che rivoluzione, altro che presa del potere.
E tuttavia il capo Warrior arrivato finalmente nel suo quartiere dà un’occhiata in giro e dice “E’ per tornare a questo che abbiamo combattuto tutta la notte? Forse me ne vado via”.
Che fare, dunque? Il viaggio continua? Per dove? La rock song sui titoli di coda (In the City cantata da Joe Walsh, il chitarrista degli Eagles qui in versione vocalist) offre speranze, una direzione, oppure chissà?
Somewhere out on that horizon / Out beyond the neon lights / I know there must be somethin’ better / But there’s nowhere else in sight / It’s survival in the city / When you live from day to day / City streets don’t have much pity / When you’re down that’s where you’ll stay… / In the city…
I was born here in the city / With my back against the wall / Nothing grows and life ain’t very pretty / No one’s there catch you when you fall / Somewhere out on that horizon / Faraway from the neon sky / I know there must be somethin’ better / And I can’t stay another night / In the city…
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Categorie:cinema, cultura di massa
Tag:Cinema Arsenale, Keith Haring, Sol Yurick, street gang, Walter Hill, Warriors