
Abbattimento della statua equestre di re Giorgio III, Manhattan, 9 luglio 1776
Pubblico alcuni passaggi iniziali del nuovissimo libro di Germano Maifreda, Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture, Feltrinelli, 2022; per la precisione, dalle pagine 9-11 e 13. Mi piace pubblicarli, cortesia dell’autore, perché presentano in maniera per me molto nitida una questione su cui nel dibattito pubblico si fa una gran confusione.
Come i discorsi, anche le forme che ci sono state consegnate dal passato — e che possiamo decidere se preservare nel presente — non sono né innocenti né neutrali. Ognuna di esse è emersa da un intreccio di rapporti di potere che non procedono solo dall’alto verso il basso della piramide sociale, ma tracciano percorsi variegati, talora minuti, situati nel tempo e nello spazio. In questi fasci di relazioni politiche possono di volta in volta combinarsi o prevalere le logiche di schieramento, la posizione dei soggetti nei sistemi di produzione o nella gerarchia della ricchezza, i divari e le discriminazioni di genere, generazionali, culturali, etnici o di altro tipo. Gli oramai frequenti dibattiti sui presunti abusi della cosiddetta cancel culture — la supposta tendenza di alcuni individui o gruppi sociali a limitare o ostacolare la propagazione di espressioni altrui, anche operando in forma organizzata — presuppongono tacitamente che le espressioni fatte oggetto di contestazione si formino, e poi affiorino, in modo spontaneo, puntiforme, atemporale; senza radici, conseguenze, motivi. Da qui l’accusa di sproporzione rivolta ai tentativi di contrastarle. Se tutte le posizioni sembrano legittime, è solo perché s’immagina che non implichino altro che se stesse. Null’altro pare esistere: né prima né dopo.
Alcuni movimenti sociali sbrigativamente etichettati come espressione di cancel culture hanno di recente messo in atto (anche) forme di protesta consistenti nell’abbattimento, danneggiamento o richiesta di rimozione di statue e altre forme visuali ereditate dal passato, collocate — non è un dettaglio secondario — in spazi pubblici. La maggior parte dei commentatori non è andata molto oltre una generica denuncia di lesa maestà storica, rinunciando così ad aprire spazi di discussione. Si è per esempio rinunciato a indagare il significato profondo di quelle immagini e di quelle collocazioni nello spazio pubblico, entrambi – ancora un volta – tutt’altro che neutrali e innocenti; a interrogarsi sulla capacità o meno di specifiche immagini, poste in specifici luoghi, di rappresentare gruppi che in passato non avevano voce ma che guadagnano ora centralità sociale; a denunciare il divario oramai abissale esistente tra manufatti visuali creati e selezionati sulla base di rapporti di forza vigenti in passato e un futuro inesorabilmente pluriculturale. Di fronte a questi problemi, che sono a tutti gli effetti politici, un superficiale appello all’anything goes in tema di “testimonianze storiche” (l’assunto che tutto ciò che ci è stato tramandato meriti indifferentemente di essere preservato, esibito, ammirato) si rivelerà – si è già rivelato – pericolosamente insufficiente.
Un punto di orientamento per muoversi in questo nuovo paesaggio è l’evidenza che nessuna traccia del passato è giunta a noi pura, intatta, primitiva. Ogni immagine, come oggetto storico, è stata più volte vagliata e filtrata, promossa o bocciata, anche solo per l’autocontrollo e l’autocensura dei suoi autori. I cancellati di ieri potranno certo diventare cancellatori di domani; coloro che temono la propria cancellazione devono, a loro volta, ammettere di aver cancellato. […]
Le immagini, come ogni altro documento che ogni epoca e ogni cultura hanno creato e affidato all’avvenire, devono perciò, penso, essere esaminate non solo nella loro temporale struttura formale, ma anche come monumenta: ovvero ricollocandole fra i lasciti che Jacques Le Goff definì “il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – volenti o nolenti – quella data immagine di se stesse”. Con questa precisa consapevolezza i dittatori censurano le immagini altrui e ne erigono di proprie, che saranno regolarmente abbattute in occasione della loro caduta. Il processo ciclico di distruzione delle effigi di tiranni già amati, temuti o venerati, ci appare in molti casi del tutto naturale e condivisibile, perché tacitamente ne condividiamo i presupposti. A riconferma del fatto che ogni raffigurazione è un atto politico, come politico è ogni atto di cancellazione.
- Dall’11 settembre al 6 gennaio: appunti sull’urgenza di una crisi 
- Appunti. Su Stalin, Potsdam e la bomba anglo-americana: testimonianze e una timeline
Categorie:Cultura politica
Tag:cancel culture, Germano Maifreda, monumenti
Arnaldo, tutto bene? Sono Renate Holub, e non riesco a trovare il tuo email. Sarebbe possibile di contattarmi? Grazie mille RH
"Mi piace""Mi piace"
Ciao Renate, sono contento di sentirti, la mia posta è arnaldo.testi @unipi.it
"Mi piace""Mi piace"