A poco più di vent’anni dall’11 settembre 2001, è difficile immaginare la società e la politica americana d’inizio secolo prescindendo da quello shock terribile, che ha brevemente unito i cittadini e poi ne ha acuito le divergenze. A un anno di distanza dal 6 gennaio 2021 è altrettanto difficile non ripensare quelle vicende ormai di lungo periodo, e le prospettive di più breve e immediato periodo, alla luce del nuovo shock che di quelle divergenze è uno dei drammatici effetti.
Vent’anni fa la polarizzazione dello scontro politico-sociale non era una novità, ma ancora non se n’era percepita tutta la nuova portata. Nel ventennio successivo non ha fatto che accelerare. Di fronte alle minacce del terrorismo internazionale alla sicurezza e alla stabilità del paese, e quindi di fronte alle risposte da dare, questioni come il patriottismo e la guerra (e le relative teorie cospirative), lo stato di diritto (Guantanamo, Abu Ghraib, le torture segrete) e il surveillance state (che spia e controlla i propri cittadini), lo status degli immigrati e in particolare di certi immigrati (sospettati di essere agenti di diversità nemiche, infiltrate, e comunque di disordine), il diritto di portare armi (in difesa da pericoli esterni e interni e privati), sono diventati brucianti. Le conseguenze di due altri eventi straordinari, la grande recessione del 2008-2010 e la pandemia del 2020 ancora in atto, hanno intrecciato a questi altri conflitti già in corso ma, di nuovo, ora radicalizzati: conflitti materiali e culturali, di lavoro, di razza e di gender, sul climate change e sull’ambiente, sulla storia e sulla memoria nazionale, sui significati del nazionalismo, sulle disuguaglianze economiche e la distribuzione della ricchezza, sul ruolo del governo federale – mano amichevole o pericolo pubblico numero uno?
Il tutto si è progressivamente cristallizzato in una contrapposizione frontale politica e sociale come di rado s’è vista nel paese. Raramente si sono viste oscillazioni così radicali di personalità alla Casa bianca come quella fra Barack Obama, primo presidente di colore in una società razzialmente divisa, e Donald Trump, idolo dei White supremacists e autoritario per incapacità di essere altro. Raramente i loro due partiti hanno offerto contrasti altrettanto radicali per filosofia pubblica e programmi, composizione sociale e dislocazione geografica, l’un contro l’altro armati, indisponibili al compromesso, sull’orlo della delegittimazione reciproca, nemici più che avversari o concorrenti, in questo riflettendo diffusi feelings dei loro rispettivi elettori. Per molti versi Obama e Trump sono stati due facce della stessa medaglia, nel senso che la presidenza Trump è esistita perché è esistita la presidenza Obama: presidente nero e reazione bianca. E lo stesso vale per democratici e repubblicani. I due partiti sono espressione di un paese che sta cambiando e che, più che cercare un centro vitale, sembra migrare verso poli opposti, anche geograficamente separati, stati blu (democratici) e stati rossi (repubblicani), città blu e campagne rosse, aree blu metropolitane, multietniche ed economicamente dinamiche, aree rosse provinciali, bianche e statiche.
L’andamento demografico è stato cruciale, e preoccupante per chi pensa di appartenere a gruppi di origine in relativa diminuzione numerica e quindi in perdita relativa di risorse politico-sociali. Cioè i bianchi di discendenza europea. Lo dicono i censimenti: nel 2000 essi erano il 75% degli americani, nel 2020 sono precipitati al 62%. E il trend punta verso una maggioranza non bianca. Per giunta i ceti popolari bianchi si sentono impoveriti, puniti dal tipo di crescita (o per alcuni di loro stagnazione) economica, privati dunque di ulteriori risorse in una repubblica che vive un nuovo, non il primo, rimescolamento etnico e razziale.
Alla fine sono così emerse spinte anti-democratiche paranoiche e violente, che hanno una lunga storia spesso sottotraccia nella vita turbolenta del paese (come di ogni paese), ma che ora si sono coagulate in gruppi di estrema destra eversivi e White-supremacist che agiscono alla luce del sole, e hanno trovato ospitalità e legittimazione in uno dei due partiti principali, quello repubblicano, e nella leadership dell’inquilino della Casa bianca. I progetti insurrezionali che hanno portato all’assalto del Campidoglio del 6 gennaio dell’anno scorso e, direi, soprattutto le successive reazioni di (ufficiale) sottovalutazione, di (reale) empatia e di (non tanto nascosta) glorificazione dell’evento da parte di quote consistenti dell’elettorato repubblicano e del suo ceto politico in Congresso e negli stati, ne sono la sintetica manifestazione. E mostrano come, a vent’anni dall’11 settembre, la minaccia, concreta, fattuale, alla democrazia del paese non venga (più) dal terrorismo internazionale, da alieni d’oltre-confine, bensì da forze interne che sono vicine ai gangli stessi del sistema politico e istituzionale del paese, al cuore stesso della sua fantasia popolare, culturale, politica.
E’ in questo contesto che l’amministrazione Biden è arrivata alla Casa bianca, sull’onda di una grande affermazione elettorale del candidato presidenziale e di successi solo per il rotto della cuffia a livello congressuale. C’è arrivata con un’agenda politica molto ambiziosa e molto ansiosa, dove l’ambizione è dettata dalla scommessa di vivere in momenti di potenziale trasformazione storica, e di volerli favorire, e l’ansietà è indotta dalla sensazione di avere forze inadeguate e poco tempo a disposizione per la bisogna.
La scommessa è di tipo sistemico, un “cambio di paradigma” che implica una rottura non solo con il recente passato ma anche con un’intera fase semisecolare di storia nazionale. L’idea è che la presidenza Trump rappresenti la fase terminale, esausta e degenerata del ciclo politico-sociale conservatore inaugurato cinquant’anni fa. E che quindi sia auspicabile, possibile, necessario un ritorno alla grande progettualità pubblica precedente, al ruolo centrale del governo federale, a prima che le pulsioni anti-stataliste toccassero in maniera diversa entrambi i partiti. Insomma, l’epoca della “fine del big government” è finita, i problemi accumulati hanno messo in pericolo la stessa convivenza civile, ed è l’ora che il nuovo partito democratico, forte nelle aree di crescita del paese, multietnico e multirazziale, se ne faccia carico per tutti. Pensando in grande, con provvedimenti legislativi di enormi dimensioni finanziarie e di grande impatto riformatore, quali gli stimoli economici dell’American Rescue Plan della primavera scorsa, gli interventi dell’Infrastructure Investment Act di novembre, le riforme sociali dell’ultimo pacchetto che si è arenato in Congresso prima di Natale.
A rallentare o ostacolare questi progetti ci hanno pensato la dura e scontata opposizione repubblicana e i conflitti interni ai democratici, fra i progressisti che vorrebbero riforme più importanti e spese più generose e i moderati, che invece puntano i piedi contro i troppi debiti. Il conflitto è reale e fondato sulla estensione stessa della base elettorale democratica. L’ala moderata impersonata dal senatore della West Virginia Joe Manchin, ma che certo non si eaurisce in lui, è ovvio che esista, se il partito vuole rappresentare quelle fasce di elettorato che contribuiscono a dargli una larga maggioranza nel paese e che si muovono ai confini politico-ideologici fra i due schieramenti (in West Virginia sono la stragrande maggioranza, per dire, ma sono presenti ovunque). Il punto è che quell’ala, addirittura quella singola persona, diventano decisive in un Congresso che per ragioni strutturali non esprime in maniera adeguata quella maggioranza popolare, e produce invece un Senato spaccato esattamente a metà e una Camera quasi altrettanto. Come ha commentato Biden, “Quando in Senato ci sono 50 democratici, ognuno di loro è presidente”, cioè ha potere di veto, l’ultima parola. La sua amministrazione agisce in un ambiente legislativo quasi impossibile, e ciò interroga l’ambizione stessa della sua scommessa.
E poi, e infine, c’è il senso di urgenza e di incertezza che quell’ambizione ha ispirato. Secondo i democratici, negli ultimi tempi la democrazia e l’ordine costituzionale sono stati messi alla prova e hanno mostrato vitalità e capacità di resistenza. Ma davvero i pericoli sono finiti? Davvero si annunciano tempi nuovi? La polarizzazione politica con le sue frange violente sembra tutt’altro che in ritirata. E se i repubblicani ancora trumpiani, ancora complici della menzogna del grande imbroglio elettorale e degli istinti eversivi del 6 gennaio, con le loro solide basi sociali, fossero in grado di prendersi una rivincita, di far di nuovo pendere dalla propria parte la bilancia della fortuna? Basterebbe poco, in effetti. Per questo bisogna agire rapidamente, toccare subito la vita dei cittadini con provvedimenti utili di cui menar vanto, contando di sgretolare il consenso degli avversari, di rubarne per sé qualche frammento. Farlo prima delle prossime scadenze elettorali, sempre vicinissime. Farlo mentre il Covid-19 e ora anche l’inflazione non danno tregua, e il tasso di approvazione del presidente è in caduta. Solo così il partito può sperare di restare al governo e consolidare l’inizio di un possibile nuovo ciclo politico.
Per i democratici è vitale far presto, o almeno lo sarebbe, se il sistema, di cui loro stessi sono parte, non li imbrigliasse.
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Tag:11 settembre, 6 gennaio, Donald Trump, Joe Biden