Short Cuts America: il blog di Arnaldo Testi

Politica e storia degli Stati Uniti

Storie. Gli occhi del popolo sul governo, ovvero i problemi della trasparenza

the-tyrants-foe1-613x397-1“Un governo popolare senza informazione popolare, o i mezzi per acquisirla, non è altro che un prologo a una farsa o a una tragedia, o forse a entrambi”. Ipse dixit James Madison, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti. La libera circolazione delle notizie sulle azioni dei governanti, la trasparenza del loro operato, sono fra i fondamenti della democrazia. Ci può essere troppa trasparenza? Ovvio che no. I governanti sono servitori dei cittadini, non possono nascondersi al loro sguardo, agli occhi del popolo. E tuttavia, come al solito, le cose non sono così semplici.

Ogni aumento del grado di trasparenza ha molti effetti, non solo quelli previsti e desiderati, ma anche altri – effetti “perversi” e problematici. Per esempio, che cosa succede se i governanti negli organi di governo diventati trasparenti, invece di governare, cioè di elaborare decisioni delicate e complesse, si mettono a parlare direttamente agli elettori, cioè a fare propaganda? Magari le vere decisioni vengono prese prima e in luoghi più opachi? Per sapere la risposta non occorre essere storici, politologi o paranoici, basta aver partecipato attivamente a una assemblea, a un consiglio di qualcosa, a una riunione di condominio.

Ma prendiamo un esempio storico: l’arrivo dei new media del tempo, cioè dei primi reporter politici, nelle aule del Congresso degli Stati Uniti all’inizio dell’Ottocento. La libertà di stampa era totale, un prodotto della Rivoluzione e delle garanzie costituzionali. E tuttavia, ancora dopo la Rivoluzione, i lavori delle assemblee legislative continuavano a non essere pubblici come non lo erano stati nell’epoca coloniale (e come non lo erano stati a lungo nel Parlamento inglese).

Anche la Convenzione costituente di Filadelfia del 1787 si era tenuta a porte chiuse, nel massimo segreto. Alla fine la carta costituzionale era stata resa pubblica nella sua interezza; ma i verbali delle riunioni, le minute degli interventi, furono pubblicati solo 30 anni dopo. Si riteneva che, senza conoscere i conflitti e i compromessi che l’avevano plasmata, la carta stessa avrebbe goduto di maggior prestigio, di una sua arcana sacralità.

Queste forme di segretezza erano ovviamente un ostacolo all’esercizio della libertà di cronaca politica.

Poi le porte furono aperte.

I lavori congressuali, così come li trovarono i primi cronisti, erano tutti orali. Si parlava camminando fra i banchi di aule fumose e, d’inverno, intorno al caminetto. C’erano continue interruzioni reciproche, battibecchi, rumori di ogni genere, qualcuno si portava anche il cane. Gli interventi erano improvvisati. I legislatori ritenevano ridicolo e offensivo leggere qualcosa preparato in anticipo. Si supponeva che fossero lì per discutere, per convincersi a vicenda, non per ripetere convinzioni o decisioni maturate prima e altrove. L’insinuazione che un collega avesse letto da un testo scritto era un insulto. Infine, gli interventi erano casuali, non si stava troppo attenti a quello che si diceva. Il linguaggio poteva essere acceso e provocatorio ma, fra uomini di mondo, fra cinici professionisti della politica abituati a tutto, i comportamenti erano poi flessibili e i compromessi possibili.

Tanto le liti e i compromessi non raggiungevano il pubblico. O almeno così era prima. Poi non più.

L’arrivo dei cronisti cambiò le cose, in maniere prevedibili e imprevedibili. I loro occhi erano quelli del pubblico, ciò che succedeva in aula sarebbe uscito all’esterno.  All’inizio fu arduo dare un ordine a quel bailamme orale. Per i loro giornali, i cronisti dovevano fornire resoconti scritti, brevi e accurati, di discorsi lunghi e sconclusionati. Per sicurezza, cominciarono a sottoporli all’approvazione degli oratori stessi, che così cominciarono a preoccuparsi di quello che dicevano. A un certo punto, iniziarono a mettere direttamente per iscritto i loro interventi, magari con l’aiuto di esperti, cioè di giornalisti amici.

I loro discorsi erano ora pensati per comparire sui giornali, quindi non per convincere i colleghi bensì per parlare al popolo. Le parole accese, se c’erano, miravano ad accendere gli animi di seguaci ed elettori, e acquistavano la permanenza e l’aura della parola stampata. I compromessi legislativi diventavano pericolosi, perché là fuori erano presi per segni di incoerenza o tradimento. Nel momento in cui le istituzioni rappresentative diventavano più trasparenti, le posizioni dei rappresentanti si irrigidivano. Ciò rese più difficile il compito di governare. (Qualche storico dice: ciò contribuì a precipitare la Guerra civile.)

Quando i luoghi delle decisioni democratiche divennero più trasparenti, si verificò un altro fenomeno: le decisioni importanti vennero sempre di più preparate fuori da lì. Per esempio, nei corridoi del Congresso stesso o di qualche albergo nei pressi, come già accadeva nei corridoi del Parlamento inglese. Nei corridoi, cioè nelle lobby. Nell’inglese americano la parola lobby, usata nel senso politico che conosciamo, è contemporanea all’esplosione del giornalismo parlamentare e alla diffusione del termine “quarto potere” per definirlo (intorno al 1840).

C’è anche una leggenda che riguarda il Willard Hotel di Washington, a un isolato dalla Casa bianca, nella cui lobby, per l’appunto, si intrattenevano i congressmen e i presidenti degli Stati Uniti a farsi un whiskey e un sigaro – e a chiacchierare in privato con chi cercava favori e influenze politiche private. Naturalmente i cronisti stessi cominciarono a frequentare quei luoghi extra-parlamentari, corridoi e alberghi, e anche salotti buoni e le peggiori osterie della suburra. Inseguirono le lobby e ne parlarono, e alcuni, magari, entrarono a farne parte.

Il lavoro degli occhi del popolo non finisce mai.

Categorie:Cultura politica, mass media, Storie

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